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glam rock di
Nicola Gervasini (02/07/2012)
Consigliare
il nuovo album di Alejandro Escovedo sulle nostre pagine sta diventando
una prevedibile consuetudine. Tanto che ormai riesce difficile inventarsi qualcosa
di nuovo per descrivere quanto questo artista stia ancora macinando grande "rock"
in un epoca in cui tutti lo definiscono "classic" pur di non doverne decretare
la morte. Invece lui da tre album a questa parte - ma a ben vedere in tutta la
sua carriera - ha vestito i panni del professore illuminato, e ora insegna il
verbo del rock and roll alle (poche) nuove generazioni che sono disposte ad ascoltarlo,
e lo fa con una precisione e una qualità che ormai non ha eguali. Sembra quasi
che non vedesse l'ora di poter raccontare le esperienze raccolte in quasi cinquant'anni
di vita da strada, e le svela divertendosi e divertendo parecchio, in barba ad
una malattia che più di dieci anni fa sembrava averlo fatto giungere al capolinea,
e risultando addirittura uno dei pochi ultrasessantenni che ancora considera la
produzione discografica (e non l'attività concertistica) come il fulcro della
propria vita artistica.
Big Station ha tutto per piacere:
canzoni che possono restare nella memoria (o davvero riuscireste a dimenticare
Bottom Of The World?), suoni che omaggiano non uno, ma più passati,
dal glam (Big Station) alla new wave (Too
Many Tears), dal punk (Man Of The World)
fino addirittura a certi anni 80 (la straordinaria Sally
Was A Cop). Episodi da arena-rock (le giocose Common Mistake
e Party People) e aneddoti rock (Headstrong
Crazy Fools) si susseguono senza sosta, alternandosi a momenti di riflessione
in cui il nostro fa davvero sul serio (San Antonio Rain
richiama certi suoi dischi degli anni 90, Never Stood A Chance è un trip
strascicato e ipnotico come solo lui sa fare, Can't Make
Me Run un teso dialogo con la tromba di Ephraim Owens). In tutto questo
il finale in lingua di Sabor A Mi (un noto
brano messicano del 1959) sa di ciliegina sulla torta, quasi una sorta di riconciliazione
con quella roots-music che non sembra più interessato a fare. Lo aiuta il solito
partner di lusso (Chuck Prophet), che oltre ad intervenire in fase di scrittura,
si conferma ancora una volta come musicista dotato di un gusto fuori del comune,
e il produttore Tony Visconti, uno che ha il pelo sullo stomaco e l'esperienza
per sovrabbondare con cori di ogni sorta, fiati e orpelli elettronici senza mai
scadere nel trash più bieco.
A questo punto ci resta solo da affrontare
la solita domanda: come mai Escovedo resta sempre e comunque un personaggio di
seconda fila, nonostante siano più di vent'anni che non sbaglia un colpo? La risposta
sta proprio nel rispetto e nella totale deferenza che il nostro ha verso il rock
e i suoi eroi (pensatelo sul palco con Springsteen due anni fa, sembrava quasi
imbarazzato solo all'idea…), quasi che abbia messo la sua forte personalità d'artista
al servizio di un suono che ama come ascoltatore prima ancora che come protagonista.
Troppo amore e troppo poco individualismo forse, un atteggiamento dimesso che
lo rende sicuramente simpatico, ma perennemente ai margini delle discussioni critiche
sul rock odierno. O forse, più semplicemente, il professore evita le folle e ama
fare lezione solo agli alunni più motivati e veramente interessati.