File
Under: pop, folk rock
di Fabio Cerbone (23/01/2012)
La luna di miele privata
(e artistica) fra Kathleen Edwards e Justin Vernon (in arte Bon
Iver, uno dei nomi di punta dell'indie rock attuale, il suo omonimo
album del 2011 è stato fra i prescelti dall'intellighenzia critica di
mezzo mondo) si è tradotta in una cronaca musicale dettagliata, dove la
liason d'amore ha fornito lo spunto per una serie di leggeri bozzetti
e intense riflessioni personali. Voyageur dunque come metafora
della vita stessa della cantautrice di Ottawa, in transito fra Canada
e America e ancora indecisa sul suo futuro, fra un amore sbocciato e uno
finito, tra una carriera precedente e una nuova tutta da riscrivere. Il
disco ne riflette ogni passaggio, risultando esattamente un'opera di raccordo,
con spunti interessanti e altrettante, numerose incognite sulla direzione
da intraprendere. Certamente le cure produttive di Bon Iver, il suo gusto
inconfondibile in fatto di riverberi, stratificazioni vocali e fragranze
pop etereee ha lascito un solco profondo su queste registrazioni, ma non
si tratta di uno snaturamento o peggio di un cambio rivoluzionario.
Insomma, il percorso di maturazione e di personalità che fuoriusciva prepotentemente
dai predecessori, il notevole Back to Me e l'altrettanto intrigante Asking
for Flowers è ancora ben presente e il marchio distintivo della Edwards,
con quella voce sparsa e sfuggente, non è stato in definitiva tradito
del tutto. Resta indubbio che il timbro traditional del passato, le sbandate
country rock e il twangin' sound che la fece accostare ad una novella
Lucinda Williams qui si riscrivono e inquadrano in un suono più sottile
e vaporoso, che fin da Empty Threat
e A Soft Place to Land, con il passaggio
attraverso la più inquieta Chameleon/Comedian,
delineano il tentativo di compiere un salto di stile. Da questo punto
di vista l'operazione è riuscita soltanto in parte, lasciando alla Edwards
la scelta fra un pop sofisticato e malinconico (Change
the Sheets, il primo singolo marchiato a fuoco dalla svolta
di Bon Iver, oppure il finale con l'impalpabile For
the Record) e una ballata elettrica che comunque tende a richiamare
il passato (Mint l'episodio più clamoroso
in tal senso, con una marcia che invoca a gran voce il country rock delle
origini), benché rivisitandolo in una chiave più lieve e vaporosa (Sidecar,
brano firmato dal collega Jim Bryson, e Pink
Champagne).
Resta da sottolineare che questa operazione parzialmente confusa, o quanto
meno ancora ferma a metà del guado, è stata forse caricata anche di troppe
aspettative, così come una produzione dispendiosa e affollata no aiuta
a schiarirsi le idee, lì dove le eccessive collaborazioni in studio
(appaiono quattro diversi batteristi, altrettante backing vocals, tra
cui Norah Jones) non hanno probabilmente favorito la Edwards a cavarsela
da sola. Lei resta una delle voci del rock d'autore al femminile più intriganti
di queste stagioni: concediamole volentieri qualche tentativo in più e
stiamo a guardare se la rotta si aggiusterà strada facendo.