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classico vivente di
Marco Denti (24/09/2012)
Mezzo
secolo fa un country boy approdato a New York sulle orme di Woody Guthrie, esordiva,
abbracciato alla sua chitarra e con uno sguardo enigmatico, sulla copertina di
un disco della Columbia. Quella prima raccolta di canzoni conteneva già la natura
del classico: qualcosa che riemerge sempre e di continuo come se avesse scoperto,
traccia dopo traccia, gli elementi primordiali della musica americana, le radici
del blues e del folk rimescolate come il segreto del DNA ricostruito in un folle
laboratorio sotterraneo. Esisteva già tutto e Dylan è arrivato a rileggerne
le sequenze fondamentali ed essenziali, cominciando un lungo e ondeggiante processo
di metamorfosi che avrebbe trasformato le sue scoperte in forme nuove e assolute.
Un'evoluzione biologica, in un certo senso, che ha portato Dylan ad assumere la
consapevolezza di riconoscersi come un classico vivente, che in quanto tale non
ha bisogno di niente.
Se si ascolta (e si legge) Tempest
con quest'ottica si comprende perché, non solo è il suo miglior disco da Time
Out Of Mind in qui, dato che può valere a fini contabili più o meno utili, ma
anche come fa Dylan a imporsi un gradino sempre più alto. E' la forza delle proprie
ossessioni e di scelte che si sono coalizzate attorno a poche e scarne certezze:
lo stesso gruppo con cui affronta le incognite del Never Ending Tour, nessun produttore,
pochi arrangiamenti, un suono ridotto al minimo indispensabile del rock'n'roll
eppure comprensivo delle infinite sfumature dell'american music. Il classico si
nutre di se stesso e le reiterazioni di Early Roman Kings
piuttosto che di Narrow Way o il
tributo pagato con Pay In Blood a Smokey Robinson
per cui Dylan non ha mai nascosto la sua ammirazione, sono soltanto i veicoli
di una visione in cui le uniche variazioni su un orizzonte avvolto nella polvere
sono soltanto i profili di ghost town popolate da spettri e ricordi. Ancora più
di Modern Times, Tempest è crepuscolare e accorato, e come il suono lancinante
del Duquesne Whistle, sembra lanciare messaggi
nell'aria con lo stesso portamento del Cormac McCarthy di La strada.
Nessun
proclama diretto, nessuna trama in chiaro, nemmeno una posizione presa e mantenuta:
piuttosto un continuo ribadire le stesse note, come se davanti ci fosse una platea
tramortita da "long and wasted years" e incapace di altri sforzi di fantasia,
un cercare l'atmosfera giusta, un'impressione che possa far breccia e mostrare
quel deserto in un futuro che giorno dopo giorno sembra sempre più vicino. Cormac
McCarthy esordiva (con "Il guardiano del frutteto") un anno prima del
ragazzo fuggito dalle terre magnetiche del Minnesota ed è arrivato allo stesso
punto di Dylan, la dimensione di un classico moderno, destinato a delimitare una
percezione del proprio tempo. Tempest, com'era e come è ancora l'esordio
di Dylan cinquanta anni dopo, è destinato alla stessa missione: lasciare piccoli
ed elementari segnali che superino l'urgenza dei calendarsi e il sovrapporsi delle
stagioni. Il lavoro di un artista, prima e dopo il diluvio, è sempre quello.