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folk chanteuse di
Fabio Cerbone (31/07/2013)
Tempo di riflessione e tempo di cambiamento per Alela Diane, dolce espressione
del rinascimento folk americano di queste stagioni. About Farewell è
un disco di abbandoni, di ricordi, di auto-analisi e di conseguenza un capitolo
profodamente diverso nella sua recente discografa, volto a girare pagina. Per
parlare infatti del suo doloroso divorzio, delle amicizie trascorse e in generale
delle relazioni che hanno condizionato e influenzato la sua vita nell'ultimo decennio,
la cantautrice originaria di Nevada City sceglie l'opzione più insidiosa: fare
tabula rasa non solo della propria intimità e quindi della stessa scrittura, ma
anche del sound che aveva accompagnato le pubblicazioni in combutta con i Wild
Divine. La costruzione più complessa, full band, del precedente disco,
così come l'esperimento estemporaneo degli Headless Heroes, è lasciato ai ricordi,
tornando oggi sui passi degli esordi, quando The
Pirate's Gospel svelava una folksinger a metà strada tra la memoria
old time americana, il sogno bucolico della California di Joni Mithcell e la sensibilità
indipendente di colleghe quali Jolie Holland e Joanna Newsom.
Catturate
durante lo scorso inverno ai Flora Recording Studios di Portland, nuova dimora
di Alela Diane da qualche tempo a questa parte, le dieci tracce di About Farewell,
opera concisa e scarna come si addice al carattere acustico e folkie che la sottende,
compiono un viaggio tanto personale quanto difficile da comprendere al di fuori
della stessa anima dell'artista. La produzione di John Askew gioca al ribasso,
cavando ballate esangui per chitarra e pianoforte (Heather Broderick), più alcuni
delicati abbellimenti degli archi (arrangiati da Holcombe Waller) che non escono
mai dalla malinconia di fondo del canto di Alela Diane. La voce è ancora il dato
più peculiare a suo vantaggio: la sognante ambientazione di Colorado
Blue e gli arpeggi al rallentatore della stessa tilte track
tracciano un solco preciso. Non cadiamo lontani, per concezione e confidenza,
dalla proposta di Laura Marling, ma mentre quest'ultima approccia le proprie confessioni
con una forza maestosa e un tumulto folk tanto spigoloso quanto trascinante, Alela
Diane si appoggia ad una manifesta fragilità, a volte davvero un po' snervante.
La prima parte scivola via con picchi di poesia e profondità: flessuosa
e intrigante The Way We Fall, in cui intervengono
per la prima volta le percussioni di Neal Morgan (dalla band id Bill Callahan),
addirittura spronata da sfarzosi archi e una melodia pop la breve, intensa I
Thought I Knew. Poi qualcosa si spezza, anche solamente per l'effetto
monotonia, ed episodi in sé perfettamente adagiati allo stile di casa (Before
the Leaving, Hazel Street, la diafana Rose
& Thorn) risultano ripetivi e inchiodati alle risapute capacità vocali
della Diane. È croce e delizia di una ritrovata folk music che ora più che mai,
dopo qualche stagione di nuova accesa passione, avrebbe bisogno di molto più coraggio
e sperimentazione.