File Under:folk
rock di
Davide Albini (06/09/2012)
Sei
anni di silenzio discografico vengono improvvisamente interrotti dalla pubblicazione
di ben due album in contemporanea: per il prolifico Dan Bern non si tratta
di una sorpresa, anche perché dagli ultimi dispacci con Breathe
nel 2006 non è rimasto proprio inoperoso, lavorando ad una serie di registrazioni
dal vivo e raccolte vendute esclusivamente online (anche i nuovi arrivati sono
pubblicazioni completamente indipendenti), senza contare la sua intensa attività
nel cinema e nel teatro, collaborando per colonne sonore e allestimenti, tra gli
altri niente meno che con Jonathan Demme. A conti fatti però Drifter
e il gemello Doubleheader sono le prime opere di studio da diverso
tempo a questa parte, dividendosi il piatto con progetti molto differenti fra
loro, entrambi però caratterizzati dalla sigla Common Rotation.
La band che lo accompagna in questo abbondante raccolto è composta da Adam
Busch, Jordan Kats (anche co-produttori) e Eric Kufs, ai quali si aggiunge una
lunga lista di comparse, che ha il suo culmine nella presenza di Emmylou Harris
nel duetto di Swing Set, tratta proprio dalla
produzione teatrale Family Week diretta dal citato Demme.
Quest'ultima
è contenuta in Drifter, che rappresenta indubbiamente il lavoro più interessante:
una quindicina di ballate sul tema del viaggio e della ricerca, che sembrano fare
il punto della situazione sulla vita da vagabondo folk di Dan Bern, da sempre
marchiato come "novello Dylan" fin dal suo folgorante, omonimo esordio
del 1997. Recuperando in parte la vivacità di quei giorni, ma con accenti ancora
più rurali, Drifter lascia invece in disparte la svolta elettrica e pop di dischi
quali New
American Language (apprezzabile episodio in toni rock, secondo il mio
parere) e Fleeting Days, per immergersi in un folk da autentico "trovatore americano",
un amalgama classico di chitarre acustiche, misurata strumentazione roots e lunghi
testi declamatori che ci avvolge dall'iniziale Luke the
Drifter per non mollare più la presa. Manca probabilmente l'effetto
sorpresa, lo stesso che sul finire dei Novanta fece resuscitare in Bern la figura
di un folksinger che sembrava perduta per sempre nel mare alternative rock di
quella stagione, ma anche oggi la semplicità "dylaniata" di Party
by Myself e Holy House, il placido
fingerpickin' alla John Prine di Rainin in Madrid
alternato al sound elettrico ma spartano di Carried Away
e Capetown possiedono una loro ragione d'essere.
A patto ovviamente che apprezziate più l'insieme di parole e chitarre rispetto
alla precisione degli arrangiamenti, seppure belle canzoni, semplici e calorose,
non manchino all'appello, dalla rustica Mexican Vacation
alla commovente Home.
Un disco però che ho come l'impressione
noteranno in pochi, e d'altronde Bern si trova da tempo ai margini dopo avere
inciso per una major, che conferma probabilmente la sua integrità artistica,
tanto quanto una certa immobilità compositiva. Il secondo episodio discografico,
Doubleheader, è un sentito omaggio (pratica che non è nuova
per i musicisti americani) al mondo del baseball, di cui Dan Bern è grande fan
sin da ragazzino. Stessa band (Common Rotation), simili strutture folk e roots,
ma con accenti persino più austeri, che la rendono meno accessibile e più verbosa
come produzione. Il disco riprende da Drifter con diverso arrangiamento l'intensa
The Golden Voice of Vin Scully, dedicata ad
uno storico commentatore sportivo della radio americana, e arricchisce il piatto
(diciotto brani in tutto, di cui due colti dal vivo) con storie da autentici appassionati
di questo sport (Year By Year Hume Run Totals of Barry Bonds, Lou
Gehrig's Disease, Joyce and Gallaraga, Come
Back Andy Pettitte, Rincon ci
parlano tutte di figure chiave ed episodi rimasti nella memoria degli appassionati),
risultando forse più una curiosità e un'appendice al principale Drifter, su cui
è consigliabile soffermarsi per primi.