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country waltzes di
Fabio Cerbone (26/02/2013)
Tredici anni di silenzio discografico non sono evidentemente un problema per Terry
Allen, il più iconoclasta dei "fuorilegge" della canzone country
texana. La sua idea di arte è la più lontana possibile dagli schemi del music
business, mondo che frequenta soltanto quando ha qualcosa da dire, sempre partendo
da un punto di vista eccentrico, originale, fuori del tempo. Bottom of the
World è dunque un ritorno sulle scene (Salivation risale al 1999, quando
Allen venne accolto come una sorta di precursore e messia dell'alternative country),
che scardina l'idea di dover essere sempre al centro dell'attenzione, intenti
a costruire una presunta carriera. D'altronde, Allen non ha mai abbandonato l'idea
di fare arte, lui che l'ha frequentata da una posizione di puro outsider, mescolando
arti figurative e teatro: in questi anni si sono registrati così gli allestimenti
multimediali Dugout e Ghost Ship Rodez, piece teatrali da cui vengono estratti
alcuni dei brani in scaletta, formando un album dal senso compiuto insieme a materiale
del tutto inedito e alla ripresa di Four Corners
da Juarez, leggendario album di debutto del lontano 1975.
E' esattamente
la rivisitazione di quest'ultima ad aprire Bottom of the World, quasi esplicitando
quello che sarà il leit motiv di tutto il disco: un ritorno all'essenzialità dell'esordio,
a quei walzer per voce e piano che scarnificavano la country music, approcciandola
da una angolazione inedita e colta. Non è un caso insomma che Terry Allen abbia
optato per questo filo rosso: l'incedere di queste unidici tracce è intimo, austero,
una forma di ballata minimalista dove le chitarre e la steel del fido Lloyd Maines
e l'accordion del figlio Bukka si arrichiscono di volta in volta dei contrappunti
della viola e del mandolino di Richard Bowden o del violoncello di Brian Standefer.
Un sound a tratti spettrale e indifeso, apparentemente traballante, a cui in verità
non manca nulla per raggiungere il cuore sanguinante delle canzoni.
Ironiche
come sempre, quando Terry Allen si chiede Do They Dream
of Hell in Heaven, violententemente sarcastico quando grida vendetta
per il killer dell'adorato cane in Queenie's Song
(scritta a quattro mani con Guy Clark e già apparsa sull'album di quest'ultimo,
The Dark), capace di commoventi riflessioni per la moglie e musa in Covenant
(For Jo Harvey), adagiandosi su un letto di walzer acustici che si
chiamano Hold On to the House (dialogo semplice e indovinato tra piano
e dobro) e Angels of the Wind (una fisa ad
evocare immancabili paesaggi da infinito border americano). Nell'universo appartato,
sui generis, provocatorio di Terry Allen ci finiscono come sempre storie che mai
e poi mai troverete nelle produzioni di Nashville (e se per questo neppure in
qualche rispettoso prodotto Americana). Ecco allora la spiazzante, surrealista
The Gift, meditazione sul destino di Mark
Madoff, figlio suicida del famogerato Bernie, re di una delle ultime colossali
truffe di Wall Street, mentre il capolavoro Emergency
Human Blood Courier danza sul confine messicano di Juarez al passo
di uno spettrale country noir.