Per chiunque
abbia seguito con una certa attenzione la carriera di Will Oldham e della
sua principale “maschera” musicale, quella di Bonnie 'Prince' Billy,
il suo amore nei confronti della cosiddetta country music dell’età dell’oro
non risulterà un fatto inedito. E dunque non rappresenterà neppure una
sorpresa venire a conoscenza del nuovo viaggio compiuto a Nashville, dove
le canzoni di The Purple Bird hanno preso forma con la complicità
decisiva dell’amico produttore (musicista e ingegnere del suono) David
Ferguson, insieme al quale Oldham intrattiene un rapporto di collaborazione
costante da diversi anni.
A ulteriore dimostrazione di questa sensibilità basterebbe scavare nel
passato della ricca, spesso labirintica produzione di Bonnie 'Prince'
Billy per ricordare lo splendido (e alquanto incompreso all’epoca da chi
amava il lato più “alternativo” del nostro protagonista) Sings Greatest
Palace Music (2004), quando una parte del canzoniere dei Palace Brothers,
prima apprezzata creatura dell’autore di Louisville, Kentucky, era riletta
e stravolta proprio in chiave country rock extra-lusso, o ancora ripensare
all’omaggio di Best Songwriter (2007), allor quando decideva di
ripercorrere la figura leggendaria di Merle Haggard. The Purple Bird
si inserisce perfettamente in questo percorso di corrispondenza di
amorosi sensi con il linguaggio country, ma lo fa questa volta con materiale
inedito e sulla spinta di una ritrovata vena compositiva, in particolare
il ritorno di fiamma di I
Made a Place.
Ferguson, che ha lavorato al fianco di Johnny Cash, ma ha anche presenziato
al lancio di talenti come Sturgill Simpson e Tyler Childers, ha firmato
insieme a Will Oldham sette dei complessivi dodoci episodi dell’album,
e ulteriori brani sono stati condivisi con altri autori tra cui il giovane
figlio di John Prine, Tommy, mentre in studio lo stesso produttore Ferguson
si è premurato di rintracciare affermati turnisti di area roots come Stuart
Duncan al violino, Russ Pahl alle chitarre, Steve Mackey al basso, Fred
Eltringham alla batteria e il celebrato mandolinista e songwriter Tim
O’Brien. Quest’ultimo è l’ospite che dà slancio al primo singolo Our
Home, scelto in verità come chiusura della scaletta, un gioioso
country rurale dall’afflato comunitario che insieme al valzer dai forti
sapori irish tradizionali di Downstream,
in coppia con la voce di una vecchia volpe come John Anderson,
rendono bene l’idea che sostiene l’intero The Purple Bird.
Si tratta in tutto e per tutto un disco di Bonnie 'Prince' Billy, che
adatta come un guanto la sua poetica al suono elegante e classico costruito
da Ferguson e dalla band: è country rock d’eccellenza con addentellati
folk, che anela fieramente nella voce (mai così perfetta nel ruolo)
e con gusto sublime negli arrangiamenti alla stagione dei Settanta, a
giganti come il citato Merle Haggard, Glen Campbell, Tom T Hall, certamente
anche al Bob Dylan di Nashville Skyline. Un’ambientazione rurale
ma al tempo stesso piena di finezze strumentali che esalta la scrittura
insolitamente più solare, rappacificata e matura di Bonnie 'Prince' Billy,
così come annuncia la dolcezza ricreata da chitarre, fiddle e voci (Brit
Taylor e Adam Chaffin al fianco del protagonista) in Turned
to Dust (Rolling On).
Tra la schiettezza di un suono amabilmente agreste e un’eleganza più affettata,
The Purple Bird apre il suo cuore musicale: London
May possiede un passo drammatico e volge alla catarsi del suo
finale; Tonight With the Dogs I’m Sleeping e The Water’s Fine
sono giocose filastrocche imbrattate da violini honky tonk e fiati southern;
Guns Are For Cowards è in apparenza il momento più “scanzonato”,
con il suo incedere bislacco da polka sul confine messicano, ma che in
realtà nasconde un testo contro la violenza delle armi; mentre il soffice
candore di One of These Days (I’m Gonna Spend the Whole Night With
You) sembra uscire dalla penna del migliore Don Williams e Boise,
Idaho è senza indugi la perla dell’album, quella che sfoggia
la melodia più struggente. Il matrimonio non è dunque posticcio, perché
Bonnie 'Prince' Billy a Nashville sa esattamente quali corde solleticare
e dove invece non andare a infilarsi: se ne esce senza rinnegare il suo
volto lirico ed etereo con Sometimes It’s Hard to Breathe, quello
rabbuiato e dall’impronta dark folk nell’intensa Is
My Living In Vain? e permettendosi persino una carezza da cantautorato
soft primi anni Settanta con il languido dialogo di violino, piano e fiati
in New Water.
Un campionario di abilità, conoscenza e affettuoso rispetto della materia
trattata che molti presunti nuovi ambasciatori del verbo Americana neppure
si sognerebbero di raggiungere in un’intera carriera.