Dalla Georgia
più rurale direttamente al mondo, per diffondere il verbo del blues o
di quello che ne è rimasto e che ancora vibra delle emozioni del passato.
Battito minimale e voci a cappella introducono il West Georgia Blues
di Jontavuous Willis, curioso nome di un musicista che non da adesso
sta cercando di aprirsi un varco nella tradizione, conservandola e al
tempo stesso offrendole una nuova vita, in linea con gli esordi che furono
di colleghi quali Corey Harris o Alvin Youngblood Hart. Il discorso musicale
di Jontavious è coerente e non sceglie a caso il sentimento incontaminato
del gospel per aprire le porte del suo viaggio di ricognizione nella Georgia,
che è la casa della sua famiglia dal 1823 (così canta nel brano omonimo):
educato nella Mount Pilgrim Baptist Church del nonno fin da bambino, dalla
gospel music alla “mondanità” del blues il passo è breve si sa, con tutte
le tentazioni del caso, se volessimo seguire il racconto affabulatorio
del genere.
Siamo però nel 2024 e qui non si tratta più di scontati crocicchi e diavoli,
semmai di riconoscersi in un percorso umano e in un linguaggio musicale
che Jontavious Willis dimostra di avere assimilato in tutte le sue sfaccettature,
con una versatilità interpretativa e una padronanza fra acustico ed elettrico
(sue gran parte delle chitarre, alle quali si aggiungono sporadici contributi
di Jon Atkinson e Jay Hoop) che ha del soprendente per il suo sgusciare
tra gli stili, ora bruschi come un antico blues del Delta (Broken
Hearted Moan, Rough Time Blues), ora più narrativi e
personali (Charlie Brown Blues, Time Brings About a Change)
o ancora pronti ad abbracciare i toni più morbidi caratteristici del cosiddetto
Piedmont blues (Ghost Woman). Che
siano Son House o il giovane Muddy Waters non ancora immigrato a Chicago,
Blind Lemon Jefferson o Mississippi John Hurt a fare da stella polare,
chi ne esce trionfatore è soltanto Jontavious Willis, qui al terzo album
in carriera dopo l’esordio Blue Metamorphosis del 2016 e quello
Spectacular Class (2019) che gli valse una nomination ai Grammy.
Oggi si produce da solo, accentua le dinamiche rurali della sua musica
e fa tesoro delle esperienze in tour (con Taj Mahal, e si sente nella
gioia un po’ “caraibica” che coinvolge Keep Your
Worries on the Dance Floor o nel vecchio swing di A Lift
Is All I Need) per raccontare sofferenza e povertà certo, ma anche
condivisione e gioia, rifuggendo i luoghi comuni “necessari” di un blues
che qui vuole essere soprattutto testimonianza del proprio angolo di mondo,
non per chiudersi in se stesso ma per farsi partecipe del mondo che lo
circonda.
Willis ne ricava un bottino molto ricco, quindici brani, ma soprattutto
interamente orginale, aspetto non secondario in un ambito dove la rielaborazione
degli standard è una regola: West Georgia Blues è invece
pronto a illustrarci le sue storie autentiche, accompagnandoci nel juke
joint di Jontavious prima con le invocazioni acustiche e ossute di Too
Close to the Finishing Line e Earthworn Basement Blues,
quindi colpendoci a tradimento con la cruda e trascinante Lula
Mae (il passaggio più elettrico ed eccitante dell’album, con
la sezione ritmica formata da jay Hoop e Rodrigo Mantovani), il ragtime
piccante di Squirrlin’ Mama (al piano Ethan Leinwand), il lascivo
e primordiale blues elettrico di una Lost Ball
che potrebbe sbucare da un vecchio 45 giri della Chess.
Quando è ora di chiudere il locale, tutti escono fradici e soddisfatti
eseguendo la danza di Jontavious’ West Georgia Grind, strumentale
“di congedo” con la band al completo che risolve il cammino intrapreso
a bordo del West Georgia Blues.