I Coral sono
da più di vent’anni una di quelle band che tutti in qualche modo apprezzano,
anche se poi, chissà perché, non scatenano mai gli entusiasmi che meriterebbero,
nonostante il recente Sea of Mirrors, ma soprattutto il corposo
Coral Island del 2021, siano tra i dischi più interessanti usciti
in questi anni Venti. Qualche vecchio fan però sostiene che qualcosa si
fosse irrimediabilmente rotto nel 2008, quando il chitarrista Bill
Ryder-Jones abbandonò il gruppo, che lui stesso aveva fondato, dopo
solo cinque album. La storia dice che la sua carriera solista non ha avuto
gli stessi onori di quella della band, la quale ha continuato senza di
lui come nulla fosse, anche se A Bad Wind Blows in My Heart del
2013 andrebbe recuperato, ma forse una piccola svolta potrebbe arrivare
da questo Iechyd Da. Che è un disco che si distingue più
che altro perché, in un era di home-record e facili scappatoie nell’elettronica
per ovviare all’impossibilità di una antica ma costosa session in uno
studio di registrazione, si presenta invece come una sontuosa operazione
produttiva, dove non ci si fa mancare nulla tra fiati, archi, cori, e
chi più ne ha, più ne metta.
Lui stesso ha presentato l’album sottolineando quanto sia fiero degli
arrangiamenti, il che potrebbe lasciare le canzoni in secondo piano, ma
ovviamente non è così. Partiamo dal presupposto che Ryde-Jones (ma anche
i Coral, in fondo) non ha paura di essere accusato di “retromania”, anzi,
ci sguazza con gran piacere fin dal primo brano
I Know That It's Like This (Baby) che non ha timore di mischiare
l’incedere e i cori da Velvet Undeground e un sample di Baby di
Cateano Veloso (la voce di Gal Costa si riconosce subito). Oppure di iniziare
If Tomorrow Starts Without Me con lo
stesso giro di archi di Street Hassle di Lou Reed, anche se il
brano viaggia per altri lidi stilistici nel prosieguo. E se in alcuni
casi lavora anche per sottrazione (l’indie-folk alla Belle And Sebastian
di I Hold Something In My Hand o la piano-song A Bad Wind Blows
in My Heart Pt. 3), il resto si fa notare per i muri di suono, in
cui persino il coro di fanciulli della Bidston Avenue School Choir che
affiora in We Don't Need Them e in altri episodi, concorre al buon
risultato, senza ingolfare il meccanismo.
La sua vocalità bassa e laconica, e la sua ossessione per gli arrangiamenti,
me lo fa avvicinare al Lee Hazlewood più coraggioso, anche se il suo sangue
britannico si sente parecchio in alcuni episodi come una This
Can’t Go On che sarebbe piaciuta
ai Pulp. C’è tanta materia da analizzare e discutere qui, dai crescendo
orchestrali che caratterizzano molti brani come How Beautiful I Am
o Thankfully For Anthony, a qualche breve intermezzo utile a stemperare
una tensione degna del migliore Bill Fay come …And the Sea... o
Nos Da (piccola lezione di gallese, Nos Da vuol dire “Buonanotte”,
Iechyd Da “Buona Salute”). C’è però da notare che sotto tanti suoni si
celano delle belle canzoni, scritte con l’amore per quel cantautorato
oscuro e sotterraneo dei primi anni Settanta. Non è nuovo nella sostanza,
ma lo è nella realizzazione questo album, e potrebbe aprire una nuova
fase di ritrovato gusto per la costruzione di una registrazione, la stessa
che Bill Ryder-Jones aveva già dimostrato producendo lo splendido Dear
Scott di Michael Head ad esempio. O, perlomeno, prendiamolo come un
disperato tentativo di far sopravvivere l’arte sempre più sorpassata della
produzione.