Da diversi anni, Leyla Sarah
McCalla, eccellente, eclettica musicista e cantante newyorkese di origine
haitiana, propone opere ricche di temi e sentimenti non trascurabili.
Per chi scrive, l’ultimo album ascoltato è stato l’ottimo The
Capitalist Blues (basterebbe il drammatico Heavy as Lead a
farlo brillare), al quale è seguìto Breaking
the Thermometer. In questo nuovo capitolo artistico - la copertina
propone un’immagine di un volto per certi versi enigmatica, pure nella
miscela di colori, che suggerisce la diversità delle fonti ispirative,
afro e dell’intero continente americano -, oltre a cantare, Leyla suona
violoncello, banjo e chitarre. Con lei, un quartetto: Pete Olynciw, basso
elettrico e piano, Nahum Zdybel, chitarre, Shawn Myers, batteria e percussioni,
Mariam Qudus, sintetizzatore, organo e voce. In un brano si aggiunge il
violinista Louis Michot.
Il risultato della session è una decina di songs e loro contenuti di variegata,
anche raffinata struttura. Leyla McCalla conferma l’impegno a trattare
temi di spessore narrativo non dozzinale, anche rivolto a problemi vitali
– già l’evocativo titolo ne offre possibili significati -, con il mondo
fisico e immaginifico in cui ci troviamo: esigenze e speranze multiple.
Una miscela di “colori” personali, e non solo tali. Un ampio panorama
espressivo e comunicativo di cui afferma di aver modificato alcuni tratti
del suo pensiero proprio anche ispirata dal “clima” - luogo e persone
- percepito durante le session. La sostanza dell’opera è fatta di “racconti”
e riferimenti non tutti assimilabili dopo un primo, affrettato ascolto:
un’eterogenea miscela di conoscenze e influenze africane, sudamericane
ed elementi folk e blues, che non sempre rivela immediatamente lo spessore
narrativo, con varie sfumature musicali.
Ad esclusione di due o tre “capitoli” di taglio leggero, quali So I’ll
Go o Sun Without the Heat, slow-folk
cantautorale-bucolico che avverte simbolicamente “you want to rain without
a cloud”, o Love We Had, d’accattivante struttura folk-r&r, l’album
propone una serie di brani che ne confermano l’alto profilo artistico.
Già a partire da Open the Road, dalla
trama “swing”, che inizia declamando “I’m trying to be free…”, dichiarazione
che vola via leggera (quasi r&r), forte di suoni, chitarristici e percussivi...
Ma sono Scaled to Survive e Tree
a rappresentare il meglio dell’album. Il primo è uno slow dai tratti folk-blues,
con tanto di sfumature caraibiche, in cui spiccano le sue qualità vocali,
limpide e delicate, sottolineate da una chitarra acustica. Gli oltre cinque
minuti del secondo brano sono segnati anche da “no one could care for
me”, amara dichiarazione, e da alcuni tratti “acidi”: una mini-cavalcata,
di struttura blues-rock, ben sostenuta dal gruppo.
In Tower - al gruppo si aggiunge in bella evidenza il violinista
Louis Michot -, la sua voce evocativa suggerisce “immagini” del sorgere
dell’alba in un lieve crescendo blues-ritmico, mentre in Give Yourself
a Break, slow-folk “malinconico”, spicca la sua bella voce. Una voce
che è ancor più apprezzabile in I Want to Believe
(titolo esplicito quando arriva l’amara e implorante “...in a world
I’ve not seen...” o “...in a love I’ve not seen...”), brano finale, caratterizzato
da un lieve effetto eco e dallo splendido sostegno-sottolineatura del
violoncello. Insomma, Leyla McCalla continua a rappresentare un riferimento
per un mondo e una cultura “meticcia” che già ne sono ricchi...