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Leyla McCalla
Sun Without the Heat
[Anti- 2024]

Sulla rete: leylamccalla.com

File Under: Haitian-American roots


di Gianni Del Savio (29/04/2024)

Da diversi anni, Leyla Sarah McCalla, eccellente, eclettica musicista e cantante newyorkese di origine haitiana, propone opere ricche di temi e sentimenti non trascurabili. Per chi scrive, l’ultimo album ascoltato è stato l’ottimo The Capitalist Blues (basterebbe il drammatico Heavy as Lead a farlo brillare), al quale è seguìto Breaking the Thermometer. In questo nuovo capitolo artistico - la copertina propone un’immagine di un volto per certi versi enigmatica, pure nella miscela di colori, che suggerisce la diversità delle fonti ispirative, afro e dell’intero continente americano -, oltre a cantare, Leyla suona violoncello, banjo e chitarre. Con lei, un quartetto: Pete Olynciw, basso elettrico e piano, Nahum Zdybel, chitarre, Shawn Myers, batteria e percussioni, Mariam Qudus, sintetizzatore, organo e voce. In un brano si aggiunge il violinista Louis Michot.

Il risultato della session è una decina di songs e loro contenuti di variegata, anche raffinata struttura. Leyla McCalla conferma l’impegno a trattare temi di spessore narrativo non dozzinale, anche rivolto a problemi vitali – già l’evocativo titolo ne offre possibili significati -, con il mondo fisico e immaginifico in cui ci troviamo: esigenze e speranze multiple. Una miscela di “colori” personali, e non solo tali. Un ampio panorama espressivo e comunicativo di cui afferma di aver modificato alcuni tratti del suo pensiero proprio anche ispirata dal “clima” - luogo e persone - percepito durante le session. La sostanza dell’opera è fatta di “racconti” e riferimenti non tutti assimilabili dopo un primo, affrettato ascolto: un’eterogenea miscela di conoscenze e influenze africane, sudamericane ed elementi folk e blues, che non sempre rivela immediatamente lo spessore narrativo, con varie sfumature musicali.

Ad esclusione di due o tre “capitoli” di taglio leggero, quali So I’ll Go o Sun Without the Heat, slow-folk cantautorale-bucolico che avverte simbolicamente “you want to rain without a cloud”, o Love We Had, d’accattivante struttura folk-r&r, l’album propone una serie di brani che ne confermano l’alto profilo artistico. Già a partire da Open the Road, dalla trama “swing”, che inizia declamando “I’m trying to be free…”, dichiarazione che vola via leggera (quasi r&r), forte di suoni, chitarristici e percussivi... Ma sono Scaled to Survive e Tree a rappresentare il meglio dell’album. Il primo è uno slow dai tratti folk-blues, con tanto di sfumature caraibiche, in cui spiccano le sue qualità vocali, limpide e delicate, sottolineate da una chitarra acustica. Gli oltre cinque minuti del secondo brano sono segnati anche da “no one could care for me”, amara dichiarazione, e da alcuni tratti “acidi”: una mini-cavalcata, di struttura blues-rock, ben sostenuta dal gruppo.

In Tower - al gruppo si aggiunge in bella evidenza il violinista Louis Michot -, la sua voce evocativa suggerisce “immagini” del sorgere dell’alba in un lieve crescendo blues-ritmico, mentre in Give Yourself a Break, slow-folk “malinconico”, spicca la sua bella voce. Una voce che è ancor più apprezzabile in I Want to Believe (titolo esplicito quando arriva l’amara e implorante “...in a world I’ve not seen...” o “...in a love I’ve not seen...”), brano finale, caratterizzato da un lieve effetto eco e dallo splendido sostegno-sottolineatura del violoncello. Insomma, Leyla McCalla continua a rappresentare un riferimento per un mondo e una cultura “meticcia” che già ne sono ricchi...


    



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