Non so se vi ricordate ancora
uno dei più controversi episodi della storia militare statunitense, l’intervento
a metà anni Ottanta nell’Isola di Grenada per destituire il governo filo-comunista
di Maurice Bishop, perché proprio il padre di Kaia Kater fu uno
degli abitanti dell’isola che nel 1986 approfittò di un programma di emigrazione
in Canada conseguente a quella invasione. E deve essergli sembrata un
paradiso Montreal dopo una esperienza di guerra, come anche poter realizzare
il sogno di poter mandare la figlia a studiare in una esclusiva Università
del West Virginia. Ma lì la giovane Kaia ha dovuto sperimentare sulla
propria pelle quanto razzista, patriarcale e per nulla inclusiva possa
essere la società statunitense, ma per fortuna poi esiste la musica a
salvarci l’anima, e forse anche la pelle. Nasce da lì il suo interesse
per il folk di protesta tradizionale, più che di Bob Dylan parliamo proprio
di quello di Odetta o Pete Seeger, e anche l’indicare Nina Simone come
proprio punto di riferimento umano e artistico la dice lunga sulla sua
formazione.
Già nell’album Grenades del 2018 ci aveva raccontato la storia
della sua famiglia e le sue sofferenze, ma con Strange Medicine
la giovane folksinger fa davvero un gran passo avanti in termini
sia di scrittura che di produzione. Nonostante i suoni siano decisamente
più pieni ed elaborati, restiamo comunque sempre in ambito folk, anche
fieramente come ci racconta Maker Taker, piccola invettiva contro
le logiche del mercato artistico. Ma già la partenza un po’ allucinata
di Witch fa capire che ci stiamo muovendo
su terreni anche più sperimentali (grazie ai corposi arrangiamenti di
Franky Rousseau, già visto all’opera al fianco di Andrew Bird), quasi
più alla Donovan nella sua seconda fase mi viene da dire, tornando a citare
eroi di altri tempi, ma potremmo anche richiamare Emma Tricca, per esempio.
E proprio Witch fa capire che la Kater va oltre i racconti personali
e passa direttamente all’ invettiva sociale prendendo a prestito la vicenda
delle streghe al rogo, probabilmente il simbolo storico preferito quando
si deve parlare di oppressione delle idee e negazione delle libertà. Salvo
poi tornare sulla storia di Grenada coinvolgendo nientemeno che Taj Mahal
in Fédon, o alle riflessioni più personali di In
Montreal (un bel duello tra banjo e volino) e Often As An
Autumn.
Il campionario acustico si completa con il fingerpicking di The Internet
o le atmosfere un poco più sofisticate di Foodlights. Anche
se la vocalità è molto diversa, non può non venire in mente la prima agguerritissima
Tracy Chapman vedendola in azione, nonostante la Kater sembri voler far
tesoro di più influenze per arricchire il suo folk, pur rimanendo ancora
concentrata sulla serie di messaggi al mondo (History in Motion
sa quasi di proclama) di una donna che ha tanta energia, ma anche tanta
rabbia da sfogare. Un disco antico nell’ossatura ma moderno nella forma,
ma soprattutto vivissimo nello spirito, che soprattutto ci porta la buona
notizia di una nuova canzone militante che pareva ormai sparita da un
mondo indie-folk tutto rivolto al racconto della propria sofferta intimità.
E’ invece il momento di “trasformare ogni veleno in una medicina”, e
sono proprio queste le parole di Herbie Hancock che la Kater cita per
spiegare il titolo del disco. E noi da buoni dottori del folk questa medicina
ve la prescriviamo con l’avvertenza di eccedere pure nel dosaggio.