Si sono cercati
a lungo nel corso delle loro carriere Stephen Malkmus (co-fondatore dei
Pavement), Matt Sweeney (chitarra e voce degli Chavez e dei Superwolf)
e Jim White (batterista e cantautore fedelissimo, tra gli altri, di Cat
Power e Bill Callahan). Ce lo raccontano loro stessi nelle note stampa
di questo disco, quasi a voler giustificare e, al contempo, “normalizzare”
una scelta, quella di tirare fuori un progetto condiviso, che ha inevitabilmente
sorpreso i più.
Resta il fatto che, al di là dei falsi tentativi di far passare l’evento
come una semplice riunione tra amici, questo favoloso connubio artistico
è destinato a scatenare i sogni aurei di una generazione orfana dell’indie
rock più cool degli anni Novanta. Tanto più se, come pare, l’ambizione
vera di questo Hard Quartet sia quella di stabilizzarsi, di superare
l’estemporaneità dell’accadimento e costituirsi come un “corpus” unico
che “strilla con una sola voce”, come ciò che, un tempo non troppo lontano,
in cui si viveva di slanci romantici ed impetuosi, si soleva definire
“band”. Se poi a questo già gaudente quadro aggiungiamo che il trio è
in realtà, come da titolo, un quartetto e che il membro aggiunto è Emmett
Kelly, altro pezzo grosso del circuito alternativo (The Cairo Gang, Bonnie
Prince Billy, Ty Segall), accolto a bordo dal buon Stephen (“di recente
Emmett mi ha fatto una grande impressione, mi ha dato l’idea su come cambiare
il mio modo di suonare”), è evidente che la questione si fa oltremodo
interessante.
Ora però tutto ciò sarebbe ben poca cosa se la costituzione di questa
super lega portasse in dote, come sovente accaduto per casi similari,
graziosi esercizi di stile e poco altro, ragion per cui la notizia che
davvero rileva è che quello che ci troviamo tra le mani, è il caso di
dirlo subito, è un album importante, ben organizzato e pure svincolato
da preconcetti stilistici, che vive coraggiosamente delle suggestioni
del recente passato, senza scadere in infeconde nostalgie. Un disco in
cui ogni protagonista interviene su base paritaria, portando in dote le
proprie vibrazioni, la propria sensibilità e le sue molteplici esperienze,
con l’obiettivo di ampliare la gamma cromatica e rifuggire da paesaggi
statici o, peggio ancora, monocorde.
Tante chitarre, come è facile immaginare, che fanno da assolute protagoniste
in quello che, a ben guardare, è una sorta di viaggio sonico che si snoda
da una costa all’altra degli States, privilegiando da un lato i paesaggi
metropolitani e, dall’altro, i sentieri di un’America rurale in cui tradizione
e deviazioni iconoclaste spesso coesistono. Da New York a San Francisco
e Los Angeles, dal Midwest a Seattle, dai college ai marciapiedi a dissertare
di guerre, droghe e di un’umanità che è votata, suo malgrado, alla resistenza,
a perfezionare, giorno per giorno, l’arte della sopravvivenza. Quindici
brani che puntano all’essenza, muovendosi tra il garage glam noise di
Chrome Mess, rutilante brano d’apertura,
tra il punk integralista di Renegade e il jingle jungle di Our
Hometown Boy, tra l’alternative country di Killed by Dead,
il grunge di It Suits You, le melodie morbide alla Wilco di Hey
o, ancora, tra il classic rock di Rio’s Song
e Action For Military Boys e il blues dissonante di Thug Dynasty.
Echi di Sonic Youth, di Velvet Underground, di Bowie, di Eels, di Husker
Du, sparsi ovunque, la voce di Stephen che è un pregiato marchio di fabbrica,
il drumming di Jim che è fuori concorso, i riff di Matt ed Emmett che
suturano, millimetro per millimetro, il tessuto sonoro. Ogni episodio
è esattamente come deve essere, per i suoni, per l’efficacia melodica,
per l’impatto scenico e persino nei passaggi all’apparenza meno riusciti,
ad esempio Six Deaf Rats, lunga marcia un po' disarticolata, si
rinvengono spunti di alta classe. Roba, con i tempi che corrono, da stropicciarsi
gli occhi. In estrema sintesi: Hard Quartet è un disco di
cui, in questo momento, non è consentito fare a meno.