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The Decemberists
As It Ever Was, So It Will Be Again
[Yabb Records/ Thirty Tigers 2024]

Sulla rete: decemberists.com

File Under: folk-rock fantasy


di Fabio Cerbone (18/06/2024)

“Come è sempre stato, così sarà di nuovo” recita il titolo del nono album di studio del quintetto di Portland, Oregon, e compiendo il giro completo della propria storia pluriventennale i Decemberists sono inevitabilmente approdati al riassunto delle puntate precedenti, una circolarità che non li ricolloca esattamente ai nastri di partenza, perché lungo e fruttuoso è stato il percorso discografico compiuto fino a qui, ma neppure si spinge oltre quelle forzature che già nel precedente I’ll Be Your Girl sembravano averli chiusi in un vicolo cieco. As It Ever Was, So It Will Be Again è un ritorno di fiamma, un’opera della maturità o un buon riscatto personale per la band: si possono scegliere tutte le soluzioni, certi di non sbagliarsi molto sulle condizioni artistiche attuali di Colin Meloy, Chris Funk, Jenny Conlee, Nate Query e John Moen, che magari non saranno più corroborate dalla vitalità degli anni migliori, ma nemmeno sono destinate a un lento declino, come facevano presagire le più recenti pubblicazioni.

Ci sono voluti sei lunghi anni, il ritorno in sella del loro amato produttore Tucker Martine, la collaborazione di Mike Mills dei REM e un nuovo contratto di distribuzione con la Thirty Tigers, abbandonando il marchio storico della Capitol, ma alla fine si respira un’aria di maggiore consapevolezza e una voglia di mettere in fila tutte le influenze passate e future. Teatrali, barocchi, un po’ fanciulleschi, devoti all’idea di un album/storia come un romanzo diviso in tanti singoli capitoli (non per niente Colin meloy coltiva la parallela carriera di scrittore, e con buon successo), The Decemberists lasciano ancora una volta libero sfogo a tutti i possibili stimoli narrativi, dando forma a personaggi e versi di una favola musicale (l’iconografia della copertina non mente) che attraversa il folk rock “picaresco” dei loro giorni migliori, quella sensibilità pop che non è mai mancata al gruppo, le divagazioni prog di lavori controversi come The Crane Wife e The Hazards of Love nonchè le fattezze country e Americana del fortunato The King is Dead.

Si trovano riferimenti a tutto questo e ad altro ancora in un disco che parte sulle note scintillanti di un’innocente Burial Ground - dallo spiccato sapore Beach Boys, e che vede la partecipazione di James Mercer degli Shins - e si chiude con i quasi venti minuti di una traboccante (e un po’ insopportabile, va detto) Joan in the Garden, guazzabuglio di enfatico proggressive d’annata, divagazioni sonore da ambient music e sfuriate al limite dell’hard rock. Nel mezzo tante facce, piccole rivelazioni e qualche azzardo che finisce nel nulla, ma nell’insieme più alti che bassi e la sensazione che i Decemberists abbiano ancora qualche bella canzone da tirare fuori dal cilindro.

Accade soprattutto nella parte centrale del disco, acustica negli accenti, folkie nell’anima: l’ondeggiare dolce di William Fitzwilliam, l’oscurità e la melodia un po’ ancestrale di Don’t Go to the Woods e il senso di perdita che compenetra il racconto di The Black Maria. Intorno ricamano le gioie folk rock di Long White Veil (ah, gli amati R.E.M. che ritornano a galla), quelle più british che emergono dalla scelta della strumentazione (quel flauto...) e dal canto di The Reapers, una specie di John Barleycon (Must Die) trasportata sulle coste dell’Oregon, i sussulti pop quasi beatlesiani di America Made Me e quella insinuante soavità melodica, molto sixties, che innerva Tell Me What’s On Your Mind.

Certo, il ritmo a tempo di mambo, con tanto di sezione fiati, di Oh No! ricorda troppo da vicino il classico di Tom Waits, Jockey Full of Bourbon, mentre il pastiche di Born to the Morning non sembra approdare da nessuna parte, così come la citata Joan in the Garden contribuisce ad allungare a dismisura la durata dell’album rendendone l’ascolto un’estenuante atto di resistenza, ma in fondo fa parte dell’esperienza insieme ai Decemberists: questa volta la prendiamo tutta, senza lamentarci per qualche peccato di auto-indulgenza.


    



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