“Come è sempre stato, così
sarà di nuovo” recita il titolo del nono album di studio del quintetto
di Portland, Oregon, e compiendo il giro completo della propria storia
pluriventennale i Decemberists sono inevitabilmente approdati al
riassunto delle puntate precedenti, una circolarità che non li ricolloca
esattamente ai nastri di partenza, perché lungo e fruttuoso è stato il
percorso discografico compiuto fino a qui, ma neppure si spinge oltre
quelle forzature che già nel precedente I’ll
Be Your Girl sembravano averli chiusi in un vicolo cieco. As
It Ever Was, So It Will Be Again è un ritorno di fiamma, un’opera
della maturità o un buon riscatto personale per la band: si possono scegliere
tutte le soluzioni, certi di non sbagliarsi molto sulle condizioni artistiche
attuali di Colin Meloy, Chris Funk, Jenny Conlee, Nate Query e John Moen,
che magari non saranno più corroborate dalla vitalità degli anni migliori,
ma nemmeno sono destinate a un lento declino, come facevano presagire
le più recenti pubblicazioni.
Ci sono voluti sei lunghi anni, il ritorno in sella del loro amato produttore
Tucker Martine, la collaborazione di Mike Mills dei REM e un nuovo contratto
di distribuzione con la Thirty Tigers, abbandonando il marchio storico
della Capitol, ma alla fine si respira un’aria di maggiore consapevolezza
e una voglia di mettere in fila tutte le influenze passate e future. Teatrali,
barocchi, un po’ fanciulleschi, devoti all’idea di un album/storia come
un romanzo diviso in tanti singoli capitoli (non per niente Colin meloy
coltiva la parallela carriera di scrittore, e con buon successo), The
Decemberists lasciano ancora una volta libero sfogo a tutti i possibili
stimoli narrativi, dando forma a personaggi e versi di una favola musicale
(l’iconografia della copertina non mente) che attraversa il folk rock
“picaresco” dei loro giorni migliori, quella sensibilità pop che non è
mai mancata al gruppo, le divagazioni prog di lavori controversi come
The Crane Wife e The Hazards of Love nonchè le fattezze
country e Americana del fortunato The King is Dead.
Si trovano riferimenti a tutto questo e ad altro ancora in un disco che
parte sulle note scintillanti di un’innocente
Burial Ground - dallo spiccato sapore Beach Boys, e che vede
la partecipazione di James Mercer degli Shins - e si chiude con i quasi
venti minuti di una traboccante (e un po’ insopportabile, va detto)
Joan in the Garden, guazzabuglio di enfatico proggressive d’annata,
divagazioni sonore da ambient music e sfuriate al limite dell’hard rock.
Nel mezzo tante facce, piccole rivelazioni e qualche azzardo che finisce
nel nulla, ma nell’insieme più alti che bassi e la sensazione che i Decemberists
abbiano ancora qualche bella canzone da tirare fuori dal cilindro.
Accade soprattutto nella parte centrale del disco, acustica negli accenti,
folkie nell’anima: l’ondeggiare dolce di William
Fitzwilliam, l’oscurità e la melodia un po’ ancestrale di
Don’t Go to the Woods e il senso di perdita che compenetra il racconto
di The Black Maria. Intorno ricamano
le gioie folk rock di Long White Veil (ah, gli amati R.E.M. che
ritornano a galla), quelle più british che emergono dalla scelta della
strumentazione (quel flauto...) e dal canto di The Reapers, una
specie di John Barleycon (Must Die) trasportata sulle coste dell’Oregon,
i sussulti pop quasi beatlesiani di America Made Me e quella insinuante
soavità melodica, molto sixties, che innerva Tell
Me What’s On Your Mind.
Certo, il ritmo a tempo di mambo, con tanto di sezione fiati, di Oh
No! ricorda troppo da vicino il classico di Tom Waits, Jockey Full
of Bourbon, mentre il pastiche di Born to the Morning non sembra
approdare da nessuna parte, così come la citata Joan in the Garden
contribuisce ad allungare a dismisura la durata dell’album rendendone
l’ascolto un’estenuante atto di resistenza, ma in fondo fa parte dell’esperienza
insieme ai Decemberists: questa volta la prendiamo tutta, senza lamentarci
per qualche peccato di auto-indulgenza.