Garanzia
di un bagno rigeneratore nelle sonorità più vintage dela southern
music, l’incontro del canadese Jeremie Albino con il chitarrista
e produttore Dan Auerbach (Black Keys) presso lo studio di registrazione
di quest’ultimo, l’Easy Eye Sound di Nashville, dà vita a un cortocircuito
fra passato e presente, mettendo la voce fresca e appassionata di Albino
al servizio di canzoni ben costruite, che sanno di mitologia soul ed effluvi
swamp country dal prodondo sud. Tutto questo anche se abbiamo a che fare
con un ragazzo di Toronto, cresciuto a qualche migliaio di miglia di distanza
da Muscle Shoals, dalla leggenda della Stax records e da tutto un campionario
di suoni e interpreti che echeggiano nelle tracce di Our Time in
the Sun.
È il quarto album in ordine di tempo per Jeremie, ma certamente il primo
ad esporlo alle attenzioni internazionali, dopo avere vagato fra Canada
e Stati Uniti per qualche anno, facendosi le ossa in tour. Tutto è cominciato
dalle strade di Toronto, come si diceva, anche se l’influenza maggiore
è giunta dal lavoro in campagna nella Prince Edward County, come racconta
il protagonsita stesso nella sue note biografiche: lì scatta l’amore per
il blues, i suoni più rustici della tradizione, al servizio di una voce
che porta dentro di sé l’impronta del gospel e il sacro fuoco del soul.
L’esordio in patria è del 2019, Hard Time, incoraggiante sebbene
passato sotto traccia, così come il successivo Tears You Hide,
nel mezzo una collaborazione a quattro mani con la collega Cat Clyde nell’album
Blue Blue Blue.
La colpevole sorpresa dunque è non avere intercettato fino ad oggi la
presenza di Albino, tanto convincenti appaiono le sue qualità di interprete
in questo piacevole disco dal tocco retro che si apre sulle note di una
I Don’t Mind Waiting che più classic soul non si può, con il
santino di Otis Redding a proteggere da lassù. Certo, nulla di nuovo all’orizzonte,
anche in fatto di revival: giriamo dalle parti di un Nathaniel Rateliff,
come conferma il pathos della seguente Baby Ain't It Cold Outside,
e più in generale di una riscoperta di certe sonorità country soul e frecciate
rock’n’roll da seconda metà dei 60s. Piace però l’attitudine del protagonista,
che sembra crederci fino in fondo, così come coinvolge il groove che Auerbach
edifica con mestiere intorno allo stesso Albino, mentre band e collaboratori
(in fase di composizione sono coinvolti tra gli altri Pat McLaughlin,
Joe Allen e Bobby Wood) sostengono il repertorio dandogli quella spinta
in più per emergere.
Let Me Lay My Head è avvolta in languori bluesy, Our Time In
The Sun si batte il petto con parossismo rock&soul, mentre Rolling
Down The 405 è uno dei pezzi forti della scaletta, sulla strada
con i Creedence e il caldo sound di Memphis nel motore. Dan Auerbach
piazza i suoi contributi chitarristici in lungo e in largo (fuoco e fiamme
soprattutto in Dinner Bell), la sezione
fiati avvolge e sottolinea quando serve, e pure nella “prevedibilità”
di genere dell’intero Our Time in the Sun, le dinamiche e i bollori
dell’incisione riverberano i loro effetti tra la confessione accalorata
di Struggling With The Bottle, il crescendo di Give It To Me
One Last Time, le preghiere di Gimme Some e l’inevitabile chiusura,
intima, acustica e romantica, di Hold Me Tight.
Un bello scherzetto che porta ancora il marchio della scuola di pensiero
Easy Eye Sound: occorre soltanto capire per il futuro dove comincia davvero
il talento di Albino e fin dove arriva la lunga mano di Auerbach.