Si può ancora
catturare l’attenzione soltanto con una chitarra acustica e la propria
voce? È una domanda retorica, certo, per noi che inseguiamo storie di
songwriter e ballate folk da una vita, ma la risposta non è così scontata,
perché la differenza spesso è dettata da particolari che hanno a che fare
più con il mistero, le emozioni, e una sensibilità che rimanda a ulteriori
ascolti. Jeffrey Martin, texano di San Antonio, sembra possedere
il dono raro di una voce, e di uno storytelling, che ti inchiodano fin
dalla prima pennata di chitarra in Lost Dog, traccia d’apertura
del suo quarto lavoro (se abbiamo fatto bene i conti con la sua oscura
produzione indipendente) e terzo in sequenza per la Fluff & Gravy (Loose
music per il mercato europeo) etichetta di Portland, Oregon, da qualche
anno diventata la città di adozione dell’autore.
Una vera scoperta per chi è ancora innamorato di quei cantautori che scavano
in profondità e hanno il talento di porre domande, qui nascoste tra versi
che possiedono una qualità letteraria non comune, frutto immaginiamo della
precedente esistenza di Jeffrey, laureato in lettere e insegnante di liceo,
prima di abbandonare ogni cosa e scegliere la strada impervia del musicista
in perenne spostamento. Qualcuno in passato ha scomodato Raymond Carver
per descrivere il dettaglio delle parole di Martin, noi ci limitiamo a
constatare la tenera e malinconica bellezza di ballate come Garden,
Quiet Man o There Is a Treasure, che trasportano in un’America
da suburbio, quella del Northwest in cui si muove lo sguardo di Jeffrey
Martin.
Il linguaggio è volutamente ridotto all’osso, c’è una chitarra acustica
(una Martin, e non poteva esserci destino diverso, visto il cognome del
protagonista…), qualche volta il vibrare di una corda di nylon della classica,
più raramente l’elettrica a riempire gli spazi in lontananza (avviene
nella splendida Red Station Wagon,
uno dei vertici dell’album per intensità interpretativa), ma tutto è in
fondo rimesso alla sostanza del “narratore”, a quella voce che dà forma
ai pensieri e ai personaggi, una ricerca di umanità come antidoto alla
violenza che ci circonda. E il candore di queste canzoni, dalla drammaticità
di Paper Crown al calore accogliente di All My Love, si
percepisce immediatamente, secondo le regole antiche di un country folk,
con qualche lontana eco di irish music fra le note, che si nutre di una
tecnica chitarristica basilare eppure efficace nello sfruttare la trame
del fingerpicking, alternato alla parte ritmica sullo strumento, portandoci
a tu per tu con l’anima dello stesso Jeffrey Martin.
Thank God We Left The Garden è stato registrato in totale solitudine
tra le pareti di una piccola baracca che l’autore ha attrezzato nel suo
giardino di casa: due microfoni, il silenzio e la concentrazione, una
manciata di brani che avrebbero dovuto subire altre sorti, magari uno
studio di registrazione più professionale e sonorità più arrangiate. Non
è andata così, per fortuna, probabilmente perché Jeffrey Martin si è accorto
che era già tutto lì quello di cui aveva bisogno.