Esistono
due tipi di ascoltatori, da una parte quelli che di un artista ascoltano
solo il meglio, dall’altra invece chi si innamora di un suono o di uno
stile, e segue un nome in ogni caso, nel bene o nel male. Per questo parecchi
di voi, appena si nominano i Cowboy Junkies, si ricordano dei fasti
di The Trinity Session (sono passati 35 anni ormai), oppure degli
album realizzati perlomeno fino a Lay It Down del 1996, vale a
dire la loro epoca d’oro, quando di un loro album si occupavano tutte
le testate musicali. Poi ci sono invece quelli come noi, che hanno continuato
a seguire e amare la band dei fratelli Timmins, magari passando attraverso
qualche album non completamente a fuoco o solo di passaggio, ma traendone
comunque grande soddisfazione in parecchi casi.
Per questo non salutiamo questo Such Ferocious Beauty come
un ritorno, semmai come una conferma di una band con una storia davvero
importante. Però è altrettanto vero che qui ci troviamo nella circostanza
in cui le cose girano davvero al meglio, sia nel suono, che li vede impegnati
nella loro versione più spigolosa e psichedelica, ma sia soprattutto nelle
canzoni, frutto di un periodo non facile per i tre fratelli. Il video
che accompagna il singolo What I Lost
è quanto di più struggente possiate immaginare, perché ritrae il padre
di Margo, Michael e Peter Timmins mentre ascolta Duke Ellington pochi
giorni prima di morire. Si capisce che l’uomo è affetto da demenza senile,
eppure pare che la musica gli risvegli qualcosa, un pensiero, un ricordo,
una immagine della sua vita (avventurosa pare, era un pilota di aerei),
che i figli hanno cercato di identificare in un brano davvero toccante.
E proprio la morte del padre fa da ispirazione di partenza ad un pugno
di canzoni che, più che sulla morte, cerca di riflettere sulla vita, e
si capisce quanto il disco sia dunque più un diario personale piuttosto
che il nuovo capitolo di una band. In questo senso l’album è una sorta
di seguito dell’EP Ghosts uscito nel 2020, che si concentrava invece
sulla scomparsa della madre, e non è facile per un gruppo musicale produrre
dischi così profondi e intimi, ma qui si è trattato davvero di
una questione di famiglia, a cui il bassista Alan Anton assiste come sempre
come un fratello aggiunto fin dal 1979, quando fondò la sua prima band
con Michael Timmins. Nessuna sorpresa quindi nella formula o nella solita
suadente voce di Margo, soltanto una manciata di brani che entrano di
diritto nella sezione delle loro migliori scritture come Knives,
la notevole Hard To Built,Easy
To Break e una Hell Is Real
che ritrova lo spirito più tormentato del loro amato Vic Chesnutt. In
mezzo qualche momento più lieve come Mike Tyson (Here It Comes)
a dare respiro ad una scaletta che poche formazioni sarebbero in grado
di poter produrre nei nostri giorni.
Sono roba vecchia i Cowboy Junkies, è vero, ma restano una realtà creativa
ancora vivissima, anche alla vigilia del loro quarantesimo anno di attività.