Ci sono dischi
che più di altri riflettono il procedere di una stagione particolare,
perché possiedono i colori, la luce, il sentimento di un periodo preciso
dell’anno. I Lie to You non poteva che giungere adesso,
al calare del 2022, nel mezzo di un inverno che dovrebbe essere freddo
e pungente, ma più spesso è stato avvolto da un tenero tepore. La musica
di Micah P. Hinson, tormentato vagabondo dalla terra texana, riflette
questa contraddizione, mette ancora una volta a nudo i suoi sentimenti
più reconditi e fa sanguinare la sua anima, ma più che in passato trova
la chiave per presentarsi disarmato, struggente nelle melodie, finalmente
maturo nel fare pace con i suoi demoni.
L’effetto è quello di regalare il suo disco più ispirato da almeno una
quindicina di anni a questa parte, tornando a quella magica epifania,
mai ripetuta con tale intensità e spesso anzi sfilacciatasi in opere contraddittorie,
che avevano offerto, agli esordi della sua carriera, lavori quali and
the Gospel of Progress e and the Opera Circuit. Il fatto che
una parte di questa rinnovata ispirazione sia nata proprio qui in Italia
è una piacevole “stranezza”, ma soprattutto la dimostrazione che esistono
musicisti e sensibilità di casa nostra ormai in grado di cogliere linguaggi
e stili più nel profondo degli stessi originali. Ecco dunque che I
Lie to You ha preso forma tra le montagne dell’Irpinia, dopo un corteggiamento
artistico originato dalla partecipazione di Hinson allo 'Sponz Festival'
organizzato da Vinico Capossela e dalla conseguente vicinanza con alcuni
collaboratori di quest’ultimo, come Alessandro “Asso” Stefana, chitarrista
e produttore che si occupa di costruire l’archittetura sonora di questo
album, cullata da una sorta di eleganza rurale, folk pieno di languori,
nonché alternative country nero e coperto da una polvere di un deserto
immaginario, forse quello dell’esistenza.
A completare il semplice ordito di I Lie to You ci sono
quindi gli archi di Raffaele Tiseo (e la sua suggestiva viola d’amore),
il contrabbasso di Greg Cohen (John Zorn band) e la batteria di Zeno De
Rossi, intenti a seguire lo snodarsi del racconto personale di Micah P.
Hinson, cantore di angoli bui, di sussulti sentimentali, che dal lieve
pizzicare di una toccante Ignore the Days
alla grazia di Carelessy ci trasporta
nel suo mondo ferito, quello di un artista di poco più di quarant’anni
che sembra avere vissuto già mille vite, subìto altrettante cadute, pagato
infiniti errori. Hinson si muove ancora su quel crinale nobile della canzone
folk e country d’autore, lì dove il crooning baritonale della sua voce
abbraccia insieme Johnny Cash (Walking on Eggshells) e Leonard
Cohen (500 Miles, la pianistica You and Me, traccia disponibile
solo come bonus nella versione digitale), magari intrecciandosi con la
contemporaneità emotiva di un collega come Bill Callahan (l’esile, disteso
procedere di The Days of My Youth).
Da quegli stessi universi poetici provengono gli accenti dilaniati di
People, melodia dolcissima che accompagna
un testo-verità sul dolore che sono capaci di provocarsi a vicenda gli
esseri umani, e ancora la sorprendente rilettura di Please Daddy, Don’t
Get Drunk this Christmas (John Denver), irriverente rottura con la
banalità degli affetti più scontati della festa, mentre l’incedere
di Find Your Way Out si gonfia di scura elettricità indie rock.
Sull’intero repertorio, che riammette il nome di Micah P. Hinson nel ruolo
che si è sempre meritato, svetta però una canzone in particolare: What
Does It Matter Now?, la cui toccante bellezza è da affiancare
senza tentennamenti a moderne meraviglie della canzone folk americana
come Spiritual (Spain) o I See a Darkness (Bonnie Prince
Billy). Peccato davvero che Johnny Cash non sia ancora in vita per trasformarla
nell’ennesimo miracolo dei suoi american recordings.