Il buon Dan Auerbach non
sbaglia un colpo come produttore e talent scout, diversamente da quanto
gli succede, da un po’ di tempo a questa parte, come autore. Robert
Finley è sicuramente una delle sue scoperte migliori. Il settantenne
musicista cieco originario della Louisiana è un raro campione di blues
della vecchia scuola, ancora in attività e in perfetta forma. Nato a Winnsboro,
ha vissuto quasi per tutta la vita a Bernice, una città con una manciata
di abitanti a un tiro di schioppo dal confine con l’Arkansas, dove per
anni ha lavorato come falegname mentre suonava il blues nei juke joints
e cantava gospel nelle chiese della zona. A causa di una malattia che
lo colpì ormai sulla sessantina e che lo rese cieco, non potendo più lavorare,
decise di dedicare la sua vita al blues. A nostro vantaggio.
Con la sua musica viscerale e profondamente autentica, unitamente alla
sapiente produzione di Dan Auerbach, Finley realizza un disco nato già
classico: Black Bayou è blues nel genere e nelle storie
che narra. Per esempio quella descritta in Alligator Bait, dove
il vecchio bluesman racconta che suo nonno sparò all’alligatore che aveva
cercato di morderlo, ma solo per capire poi che il caro congiunto l’aveva
usato come esca umana per catturare, come cena, il terribile animale che
regna nel bayou (storia vera? Finta? Chi lo può dire, ma il tutto è decisamente
tragicomico e dannatamente blues). Non quella che si dice una storia di
amore nei confronti della propria stirpe, ma che rende bene l’idea della
difficile vita di un tempo (e della profonda povertà e ignoranza, anche
se speriamo che non fosse così comune usare i propri nipoti per la caccia
agli alligatori negli anni Cinquanta).
Secondo Finley una canzone deve raccontare una storia, non dev’essere
solo divertente, ma anche un racconto in musica, il più vicino alla verità
possibile. E il disco contiene numerosi personaggi, dettagli, sentimenti
ed emozioni, tanto che brani come Sneakin’ Around
(che non sfigurerebbe nel repertorio di Bobby Rush) e Gospel Blues
ne sono due ulteriori esempi. Ma c’è spazio anche per la solitudine
e l’abbandono, come in Nobody Wants To Be Lonely,
che parla di persone anziane lasciate nelle case di cura. Certo non esattamente
un tema tipico del blues, ma rilevante per Finley che spesso tiene piccoli
concerti in quei luoghi. Si parla anche della vita in città in Waste
Of Time, brano con incedere alla Albert King, e che dal titolo
spiega bene qual è l’opinione del bluesman della Louisiana sulle metropoli.
Si affronta il tema del viaggio in Livin’ Out A Suitcase, che nasce
dai vari tour che hanno portato Finley a uscire dai confini nazionali
per accompagnare su palchi prestigiosi varie rock band, primi fra tutti
ovviamente i Black Keys.
Ci sono altri episodi degni di nota in questo disco, che non si fossilizza
sul blues ma prende qua e là dallo swamp rock, dal gospel, dal funk. Ad
accompagnare Finley ci sono Patrick Carney (inutile ricordare che è il
fondatore dei Black Keys con Auerbach) e Jeffrey Clemens alla batteria,
Eric Deaton al basso, Kenny Brown alla chitarra e ai cori Christy Johnson
e LaQuindrelyn McMahon (figlia e nipote di Robert Finley), il tutto registrato
nei soliti Easy Eye Studios di Nashville. Black Bayou è il quarto
episodio della collaborazione tra il vecchio bluesman nero e la giovane
rockstar bianca, che sa apprezzare il blues come pochi (da non dimenticare
che forse l’unico episodio di rilievo nella discografia dei Black Keys
da dieci anni a questa parte è statp Delta
Kream). Collaborazione più che mai proficua e che vede come sempre
il ruolo centrale di Auerbach nel plasmare il suono e le canzoni per renderle,
almeno qui, più moderne senza scadere nella piaggeria da classifica.