Nella rigogliosa fioritura
di musiciste dalla scena folk americana di queste stagioni, il nome di
Joan Shelley stazionava da tempo nella lista, non esattamente in
cima, ma neppure troppo defilata, in attesa insomma di ritagliarsi il
meritato spazio. Quel momento sembra essere giunto con The Spur,
sesto disco in carriera dell’autrice originaria di Louisville, Kentucky,
che resta ancorata alla piccola realtà discografica della No Quarter,
ma sogna in grande attraverso la bellezza adamantina delle sue ballate.
Un lavoro definito dalla stessa Joan come il risulttato di un’intima confessione,
un “conflitto” esistenziale tra il desiderio di cambiamento e l’accettazione
del proprio piccolo mondo, che nel caso della Shelley corrisponde ad un’America
agreste, appartata e “appalachiana” da cui attingere per l’ossatura così
trasparente delle sue composizioni. Se infatti il precedente Like
the River Loves the Sea l’aveva addirittura condotta sulle
coste dell’Islanda, per trovare suoni e ispirazioni, The Spur è
un album dal cuore primitivo e dal clima famigliare, nato inevitabilmente
durante il periodo di isolamento vissuto in questi ultimi due anni, al
fianco il marito e chitarrista Nathan Salsburg, che insieme al collega
James Elkington (co-produttore negli studi di Chicago) si occupa di levigare
dove necessario canzoni che in realtà stanno in piedi con pochi, essenziali
tocchi di poesia acustica.
Le voci degli ospiti Meg Baird e Bill Callahan (l’ex Smog incanta e sostiene
la protagonista nel duetto di Amberlit Morning) completano un quadro
elegiaco, che appare sospeso dalle preoccupazioni del presente e avanza
per brevi rivelazioni e un dialogo ammaliante tra la voce celestiale di
Joan, l’ondeggiare folk del repertorio, le dolcissime orchestrazioni e
i rintocchi degli altri (selezionati) strumenti. Accade così che i fantasmi
“mitchelliani” (Joni c’entra sempre in qualche modo) che accompagnano
queste nuove ragazze del’american folk music siano meno pressanti e la
personalià della Shelley emerga matura fin dalle note introduttive di
Forever Blues, un carezza malinconica
che trasmuta nel suono più erratico della stessa Spur
(firmata insieme all’amica e attrice Katie Peabody), tra le ombre costanti
di certo brit-folk dalle striature psichedeliche. La poesia domestica
di Home, con una sostanza roots degna di una Gillian Welch, ci
ricorda anche che Joan Shelley ha messo su famiglia, è diventata madre
e nella pace del suo Kentucky rurale ha trovato nuove ragioni per esprimere
l'arte del suo songwriting, che sa di antico senza apparire antiquato.
Illuminate dal lavoro elettro-acustico della band (si segnala anche Spencer
Tweedy dietro la batteria), Like the Thunder, la celestiale Fawn,
la conclusiva Completely, si avvicendano con il tono ancora più
intimo delle pianistiche Breath for the Boy
(scritta in collaborazione con il romanziere inglese Max Porter), quasi
impalpabile come uno spettro, Bolt, delicatamente drammatica e
punteggiata sulla distanza dalla chitarra baritono di Salsburg, Between
Rock and Sky. Album concepito in gran parte in duo con il compagno
Salsburg, ma dall’anelito collaborativo, per chiarezza sonora Spur
rappresenta il punto di arrivo di una lunga ricerca personale e l'ennesimo
segnale dell’abbondanza di talentuose interpreti del linguaggio neo-tradizionalista
di questi anni.