La tradizione come uno scrigno
di tesori da portare a nuova vita, ma senza la prigione della nostalgia
musicale o del rimpianto del passato fini a se stessi. Jake Xerxes
Fussell prosegue il suo percorso di cercatore d’oro sul teatro dell’american
folk music, grazie a un quarto album di studio che si rivela il più profondo
e ambizioso della sua già ricca produzione, per la prima volta allargando
sensibilmente lo spettro degli arrangiamenti, delle collaborazioni (c’è
anche la voce del mentore Bonnie Prince Billy, in qualche modo a benedire
il discepolo) e infine della stessa scrittura, con quattro episodi che
portano direttamente la sua firma.
Chitarrista dal fingerpicking cristallino, applicato spesso all’elettricità
contenuta della sua Telecaster, musicista dalla voce dimessa eppure accogliente,
che sa trasmettere il senso arcaico e universale delle canzoni sulle cui
tracce si è incamminato, Fussell sembra essere il migliore erede di Ry
Cooder per l’attuale generazione americana. Fuggendo da paragoni stilistici
improbabili, il senso che li accomuna è esattamente l’idea di mettere
in comunicazione queste vecchie folk song con il tempo che stiamo vivendo,
ballate ai più sconosciute e derivate dalle terre appalachiane (Fussell
vive a Durham, nella North Carolina), considerandole insomma materia viva
e non museale, adattandone versi e musica alla sua emotività di strumentista.
Così la caducità della natura e della vita in Rolling
Mills Are Burning Down, tra i momenti più raccolti del disco,
o la lunga cavalcata marinaresca di The Golden Willow Tree acquistano
nuovo senso, toccando nel profondo dell’anima con il loro minimalismo
folk cesellato in ogni dettaglio.
Good and Green Again è persino più meticoloso nell’opera
di esplorazione: all’interno del libretto sono annotate minuziosamente
le fonti di ispirazione, la bibliografia e le origini dei traditional
affrontati, come il trittico iniziale rappresentato da Love Farewell,
Carriebelle e Breast of Glass, sorta di unicum che lega
i fili di questo racconto ed espone il suono accurato (l’album ha nell’espressione
trasparente del sound uno dei suoi punti di forza) che il produttore James
Elkington (anche al piano, organo, dobro e mandola) ha costruito intorno
a Fussell. Alla pedal steel di Nathan Golub e agli archi di Libby Rodenbough,
già familiari nei precedenti lavori di Fussell, si aggiungono oggi le
tenui pennellate del corno francese e della tromba di Anna Jacobson, nonché
il violino di Joseph Decosimo, quest’ultimo ad aprire letteralmente gli
spazi delle melodie negli strumentali Frolic e In Florida.
Sono due delle quattro tracce che Jake Xerxes Fussell ha composto appositamente
come raccordi fra i “capitoli” cantati del disco: le altre sono la gioiosa
danza di What Did the Hen Duck Say to the Drake? e il finale rivelatore
di Washington.
Proprio quel Washington, il generale che ha dato i natali alla nazione
americana, oggi ferita e in disgregazione: Fussell snida pochi versi,
uno stralcio di liriche appartenute a un autore anonimo della fine dell’800,
le canta all’interno di una composizione che fluttua e svanisce con intimità,
lasciando l’impressione di un viaggio che ripartirà presto da un’altra
pista, in direzione di altri patrimoni musicali dimenticati e nascosti.