Nonostante le regole del
mercato discografico siano saltate da tempo e gli steccati tra i generi
siano oggi sempre meno marcabili, esistono riserve musicali che resistono
al tempo e alle mode, quasi fossero monadi senza porte né finestre che
conservano fieramente la propria essenza di seme primordiale di tutto.
Tra queste il blues rimane una delle più impenetrabili, con un suo mercato
del tutto autoctono e nuovi eroi che ormai sfuggono ai più se non si rimane
all’interno della nicchia. Shemekia Copeland è una vocalist che
in questo mondo a parte si muove ormai da 25 anni, vuoi perché figlia
d’arte del grandissimo chitarrista Johnny Copeland (scomparso proprio
quando lei muoveva i primi passi da professionista), vuoi perché, se nasci
a Chicago, l’elettricità del blues la vivi fin dalla culla.
Done Come Too Far è il suo undicesimo album (segue di due
anni Uncivil
War) e possiamo considerarlo un ottimo modo per fare la sua
conoscenza, perché al di là delle certezze di un genere che richiede più
personalità che originalità, le sue canzoni esprimono un'energia e un
suono grezzamente elettrico che può piacere anche a chi magari del blues
si è stufato già da qualche decennio. Innanzitutto il cast che l’aiuta
è stellare, e non necessariamente in ambito blues, dall’a noi ben noto
chitarrista Will Kimbrough, che produce il disco cercando il suono più
sporco del suo campionario, ad un’altra nobile sei-corde come quella di
Sonny Landreth, che contrappunta l’iniziale e polemica
Too Far To Be Gone (“You can kill a man but not a dream”).
E in più un altro nobile figlio (e nipote) d’arte come Cedric Burnside
(suo nonno era il mitico R. L. Burnside), l’organista della Hi Rhythm
Section, Charles Hodges, e altre nostre vecchie conoscenze come il Wilco
Pat Sansone e Oliver Wood dei Wood Brothers.
Ma a legare il tutto c’è lei, con la sua voce profonda e squillante nello
stesso tempo, e delle canzoni che conservano nei testi la giusta rabbia
di donna americana, nonostante siano state scritte per lei in gran parte
da Kimborough. Si spazia nelle varie tonalità del blues più elettrico
(Dumb It Down), ma non si si disdegna qualche uscita dal seminato
nelle atmosfere più acustiche della splendida The
Dolls Are Sleeping, nello zydeco di Fried Catfish and Bibles
e addirittura nell’hony-tonk country di Fell In Love With A Honky,
brano che segue tra l’altro una riuscita cover di Barefooot
In Heaven di Ray Willie Hubbard. Non mancano le ballatone come
la stessa Done Come Too Far o momenti più rockeggianti, come l’invettiva
contro l’uso delle armi in USA di Pink Turns
to Red.
C’è tutto e anche di più, in un disco ottimamente suonato e prodotto,
che dimostra come qualche voce possa ancora arrivare a tutti e che un
messaggio politico si può ancora levare dalle “muddy waters” di un mondo
spesso troppo autoreferenziale come quello del blues.