Sono sincero, la curiosità
di ascoltare l’album di cui tutti parlano era tanta. Il nome di Natalie
Mering, in arte Weyes Blood, sta in realtà girando un po’ ovunque,
sul web e sulle riviste specializzate, e da diverso tempo, vista la sua
carriera ormai decennale (esordì nel 2011 con l’EP The Outside Room).
Da quando però ha pubblicato And In The Darkness, Hearts Aglow
sembra che il suo status di next best thing sia ulteriormente cresciuto.
Intanto cominciamo col dire che il sound scelto dall’artista di Los Angeles
e dal suo co-produttore Jonathan Rado, rispetto all’ultima prova in studio,
ha spostato l’asse verso l’indie-folk, lasciando un po’ meno spazio alle
tastiere che dominavano maggiormente in Titanic Rising (2019).
L’effetto principale di questo cambiamento di stile è che se prima il
punto di riferimento immediato per l’ascoltatore poteva essere Lana Del
Ray e il suo languido approccio vocale, adesso, appena parte l’iniziale
morbida ballata It’s Not Just Me, It’s Everybody,
la mente va subito alla mai dimenticata Judee Sill e non solo per il timbro
vocale, decisamente vicino a quello della Mering, ma anche e soprattutto
per la sua tendenza vintage. Questo brano è l’ideale porta bandiera estetico
del disco anche dal punto di vista del tema trattato, che dominerà tutto
il resto, vale a dire la solitudine che la pandemia ci ha costretto ad
affrontare con versi piuttosto espliciti, dai quali emerge la consapevolezza
di non sentirsi più gli unici ad averla vissuta in modo cosi intenso e
doloroso (“Has a time ever been more revealing, That the people are hurting?
/ Oh, it's not just me I guess it's everybody / Yes, we all bleed the
same way”).
Anche il piano che scandisce l’intro della più ritmata Children
Of The Empire, prima che il brano si carichi di altri strumenti,
ha la capacità di portarci indietro nel tempo. Qui Weyes Blood parla delle
nuove generazioni che sentono il loro futuro in pericolo da parte di chi
oggi è al potere. Grapevine è un altro
episodio riuscito che inizia più acustico, ma lascia presto spazio a suoni
elettronici che contribuiscono a dilatarne l’effetto avvolgente. Twin
Flame è il pezzo più simile al succitato Titanic Rising, e
ricorda molto i lavori di Maria Taylor. Per forza di cose risulterà anche
il più lontano da ciò che i nostri lettori più stradaioli sono abituati
ad ascoltare. Con The Worst Is Done
si torna a un folk più accattivante e in fin dei conti risulta forse la
canzone meglio riuscita dell’intero And In The Darkness, Hearts Aglow,
con la sua melodia radiofonica che al primo ascolto sa emozionare. Anche
qui si parla della pandemia e la cantautrice si lascia andare ai rimpianti
(“I should've stayed with my family / I shouldn't have stayed in my little
place / In the world's loneliest city / We're not meant to be our own
angels all the time / No one coming by to see if you're alive”).
Tirando le somme, questo album da una parte può dirsi musicalmente non
adatto a tutte le occasioni, vista la malinconia che lo contraddistingue,
ma dall’altra sarà in grado di toccare le corde più sensibili di coloro
che vorranno approfondirne l’ascolto con la giusta predisposizione d’animo.
Non un capolavoro forse, ma certamente un ottimo disco.