Crisi. Per settimane le
parole apparivano beffarde per rendere i concetti che avevo in mente:
scrivere pareva poca cosa. Motivo? Un disco, I Don’t Live Here Anymore
dei War on Drugs. Ma andava fatto. Dico: la classicità è il modo
per sanare ciò che è malato (il rock e l’idea di controcultura), malattia
alimentata dalla rassegnazione attuale. Affermo: il digitale va usato
con misura nella produzione di contenuti d’ogni tipo o uccide la complementarità
di magia e verosimiglianza. Proseguo: dieci brani nati in tre settimane
nel 2018, tre anni per registrarli e produrli. Alla produzione un canadese,
Shawn Everett, nazionalità eletta nel plasmare un suono scintillante e
al master Greg Calbi e Steve Fallone, curricula smisurati. E Adam Granduciel
dice due cose: una, che per fare i dischi belli bisogna ripartire dalle
produzioni del passato "ottantiano" a fronte delle attuali,
a volte melassa noiosa, meccanicista, antiumana, anticreativa; l’altra,
alla fine dell’articolo.
Le buone produzioni rafforzano le idee dell’artista, ne tutelano l’autenticità:
il suono degli anni Ottanta terrorizza molte persone. Si barricano dietro
l’idea che certi stili siano più genuini grazie ad un suono ruvido. Falso:
Twin Infinitives dei Royal Trux, ad esempio, ha impiegato un anno
fra incisioni e produzione; per i capolavori, ci vuol tempo. Ma la musica,
chiederete… il disco è uno stato dell’arte provvisorio. La crescita dei
musicisti e la loro coesione si riverbera su canzoni meno lunghe che in
passato ma più corpose del medio brano pop. Psichedelia e richiami ai
Can, un leggero retrogusto indie nella voce di Granduciel, attireranno
i fedeli della prima ora, fermo restando l’intento guerresco nei confronti
del panorama attuale: le canzoni scorrono fluide, immerse in un clima
da battaglia che tempesta serenamente l’ascolto. I War on Drugs non sono
più un’estensione del loro vate: la firma di metà dei brani è condivisa
fra vari membri.
Un disco profondo, viscerale, romantico, ottocentesco: teso verso il sublime
nel cogliere la totalità invece di sezionare il cosmo. Il lavoro sull’arrangiamento
è strepitoso, soprattutto nelle progressioni, i suoni stellari. Il gruppo
rompe ogni schema iniziando da una ballata, Living
Proof, in cui entra a metà brano per sostenerlo nella marcia
d’avvicinamento all’obbiettivo, chiaro su Harmonia’s
Dream: un pizzico di Journey nell’heartland country, per chiarire
a tutti dove gira l’autenticità (capaci di fare una versione definitiva
in due riprese) urlando il travaglio interiore e la speranza. Change
emette quel suono scintillante inseguito negli anni, fra Aldo Nova e i
Dire Straits. I Don’t Wanna Wait gira dalle parti degli Ultravox,
brano pensoso che si trasforma come araba fenice in una festa della potenza.
Victim ha qualcosa del pop funk nel pulsare del basso, ma gli accordi
acquamarini delle tastiere lo trasportano di peso verso l’heartland. Wasted
dà lezioni agli A-Ha scavalcandoli sulla melodia, senz’essere mielosa
come loro.
L’apice è il singolo scandaloso, il brano omonimo accusato negli ambienti
indie di “bryanadamsismo”: aiutati dalle grandiose Lucius, i War on
Drugs scodellano un inno del nuovo millennio, catabasi pregna di catarsi,
composizione grandiosa e imperfetta, perciò umana, un brano che supera
i migliori Simple Minds sul loro terreno, quello del “big sound”, grande
vibrazione, grandi anime. Oggi si spaccia per ottantiana la bolgia filocibernetica
che scimmiotta malamente una decade; qui lo si fa, lo si vive, lo si è.
La seconda verità è che questo non è che un episodio: Granduciel è già
altrove, “I don’t live here anymore”.