Nome curioso, disturbante
e un po’ sinistro, musica altrettanto sfuggente ma di grande fascino,
i Son of the Velvet Rat sono la creatura di Georg Altziebler, autore,
voce principale e chitarra, e della compagna Heike Binder, organo, accordion
e theremin, coppia di origini austriache, dalla città di Graz, che ha
trovato casa, ispirazione e orecchie sensibili in terra californiana.
Trasferitisi negli Stati Uniti nel 2013, accolti dalla comunità artistica
locale che ruota intorno ai favoleggiati luoghi del deserto del Mojave
e di luoghi simbolici come Joshua Tree, i Son of the Velvet Rat hanno
guadagnato presto estimatori di assoluta caratura, come Lucinda Williams
e soprattutto Joe Henry, che aveva messo mano alla produzione del precedente
Dorado.
Quel disco aveva rappresentato anche per noi la porta di ingresso al mondo
musicale del duo, un seducente incontro fra canzone country folk americana
dai tratti noir e reminiscenze mitteleuropee, blues notturno e d’autore,
intenzioni rock accostate a un suono più rarefatto a bagnato nel gospel.
Solitary Company, a tre anni di distanza e con un disco
dal vivo di mezzo, The
Late Show, riprende il discorso interrotto con altre dieci
canzoni, tutte frutto del fervido songwriting di Altziebler, che ne accentuano
il carattere austero e il languore elettro-acustico, parlando di luoghi,
incontri, visioni. Il canto rugoso e sussurrato di Georg Altziebler, in
apparenza fragile come un fantasma, è parte integrante dell’attrattiva
della loro musica, la quale pur non avendo oggi a disposizione il parterre
di strumentisti messo sul piatto da Henry nel precedente album, ha fatto
tesoro di quelle intuizioni, offrendo fin dall’apertura con Alicia,
ondeggiane e malinconico folk rock condotto per mano dal violino di Bob
Furgo, un saggio del loro stile.
Quest’ultimo è tuttavia meno irrigidito di quello che si possa pensare,
dissolvendosi negli archi di una sontuosa title track che lascia emergere
ombre del maestro Leonard Cohen, per riprendere vigore rock nell’incalzare
un po’ western (anche il fischio aiuta nella similitudine) di Stardust,
e approdando in una letargica e affascinante ballad come When
the Lights Go Down, l’accordion e le voci di sottofondo a dettare
il senso di marcia, che ci immaginiamo già nell’interpretazione del compianto
Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy (i quali sembrano fare capolino
anche nella cadenzata Beautiful Disarray, tra i passaggi più “immediati”
della raccolta).
Inciso sotto la guida di Gar Robertson (presente anche alle chitarre elettriche)
presso il suo Red Barn, granaio riconvertito a studio di registrazione
nella Morongo Valley, Solitary Company assorbe gli influssi geografici
e subisce l’attrazione del deserto americano, restituendo una colonna
sonora dove il linguaggio Americana è sballottato tra luoghi di luce e
angoli bui, fra il tepore country gospel di 11 & 9 (data dell’anniversario
della coppia Altziebler-Binder) e l’asciuttezza folk di The Waterlily
& The Dragonfly, il soffio rootsy della marcetta di Ferris Wheel,
e il tremolio dolce della preghiera finale, con la slide di Albrecht Klinger,
di Remember Me.
Ancora una volta la sensibilità “aliena” di musicisti europei ha saputo
cogliere suoni, immagini e battiti più americani dell’America stessa.