Trent’anni fa i Teenage
Fanclub pubblicavano il loro terzo album (Bandwagonesque) e
centravano, probabilmente al di là delle loro stesse più rosee aspettative,
il bersaglio grosso. L’album entrò nella top 30 della classifica britannica
e si affacciò anche brevemente nelle charts di Billboard, dall’altra parte
dell’Atlantico. I tre dischi successivi fecero ancora meglio, con Songs
from Northern Britain (1997) che arrivò al numero 3 in UK. Non ci
stiamo sostituendo a Wikipedia: se snoccioliamo questi numeri è per sottolineare
una certa discrepanza tra i dati concreti e la percezione comune che circonda
questi impavidi scozzesi. Quando si pensa alla band di Glasgow si tende
infatti a incorniciarla tra i fenomeni di culto più duraturi della scena
indie ma, se questo è in parte vero, è vero anche che negli anni Novanta
furono tutt’altro che un semplice oggetto di culto e, a ben guardare,
anche il concetto di indie andava loro un po’ stretto (in USA erano sotto
contratto con la Geffen, per dire).
Ad alimentare la falsa leggenda dei TFC come una band sottovalutata è
stata probabilmente la loro musica, rimasta fedelmente ancorata per trent’anni
e più a un’impareggiabile (e impareggiata, infatti) maestria nel maneggiare
il linguaggio del (power) pop stemperandolo di armonie byrdsiane e sporcandolo
con la giusta dose, non troppo né troppo poco, di feedback di chitarra:
la pietra angolare di uno stile troppo buono per essere anche di successo
(ma che invece, contro ogni logica, lo è stato, e neanche in maniera così
effimera). Il nuovo millennio ha poi rimesso le cose a posto, e i Teenage
Fanclub, senza mollare il colpo ma diradando di molto le testimonianze
del loro operato (non più un album ogni due anni ma più o meno uno a lustro),
sono infine diventati davvero la band per pochi eletti che erano destinati
a essere fin dall’inizio. Con buona pace dei critici musicali che, ogni
4-5 anni, possono rispolverare i vecchi cliché della band fedele a se
stessa, della qualità incredibilmente alta del songwriting eccetera. Tutte
cose vere, tra l’altro. Ed è questo il reale miracolo della musica dei
TFC. Ci hanno abituati talmente bene che ogni loro nuovo, ottimo disco
ha quasi smesso di sorprenderci.
Segnalarli come disco del mese quindi è la scelta giusta per ricordare
a tutti la straordinarietà di tale miracolo, anche perché il suo ripetersi
questa volta (l’undicesima) era meno scontato di altre. Endless
Arcade è infatti il primo disco composto a quattro mani e non
a sei. Gerard Love ha lasciato il gruppo nel 2018, stanco di girare il
mondo con l’ennesimo tour. Al suo posto è entrato in pianta stabile l’ex
Gorky's Zygotic Mynci Euros Child, ma l’uscita di Love ha ridotto di un
terzo l’apporto in fase di composizione, e così i due autori superstiti,
Norman Blake e Raymond McGinley, si sono sobbarcati gli straordinari,
partorendo sei brani ciascuno per portare a casa il lavoro. Non che la
cosa abbia influito negativamente sul risultato finale, anzi. Cosa si
può legittimamente attendere da un disco dei TFC? Il jangle delle chitarre
chiamate ad avvolgere il caleidoscopio delle armonie (Everything is
Falling Apart)? Le melodie pallide ma fragranti che sanno di Velvet
Underground profumati alla cannella (The Sun Won’t Shine On Me)?
Le tastiere spaziali che fanno rimbalzare le armonie come flipper (Endless
Arcade)? Il fuzz psichedelico capace di solleticare gentilmente l’anima
(In Our Dreams)? Le malinconie chiltoniane (nel senso di Alex)
a piene mani (The Future)? Il numero da garage rock con gli Xtc
nel mirino (Warm Embrace)?
C’è davvero tutto quello che ci potevamo aspettare, e anche qualche deviazione
insolita (il classicismo rock dei quattro minuti di assolo di chitarra
narcotico che sigillano Home, per esempio). L’unico rammarico è
che adesso ci toccherà aspettare altri cinque anni per la prossima lezione.