Nell’anno più duro della
sua vita adulta di donna e di artista, dodici mesi che hanno portato sia
la gioia di un figlio (dal nome suggestivo di Huckleberry), lei improvvisamente
madre a cinquant’anni, sia la perdita dell’amato e odiato padre, Amy
Speace trova l’ispirazione per costruire il disco più profondo e personale
della sua carriera di celebrata ambasciatrice dell’Americana. Costruito
a partire dai ricordi di infanzia, cresciuta fra la nativa Baltimora,
gli studi al college nel Massachusetts e il trasferimento a New York,
There Used to Be Horses Here è il frutto di quattro giorni
di incisioni a Nashville con lo stretto supporto artistico del progetto
The Orphan Brigade (il trio di songwriter formato da Ben Glover, Joshua
Britt e Neilson Hubbard).
Con l’ultimo dei tre musicisti, Hubbard, la Speace collabora in realtà
da diverso tempo, più volte coinvolto in anni recenti nel ruolo di produttore.
Tuttavia il nuovo lavoro sembra piuttosto il risultato di un autentico
sforzo collettivo, dove il suono folkie, elettro-acustico, elegante e
rarefatto già apprezzato nelle uscite degli stesso Orphan
Brigade si adatta come un guanto all’espressività vocale e
interpretativa di Amy Speace, mai così brava nel dominare le emozioni
e trasporle in musica. Ne guadagna il contesto, perché non c’è dubbio
che There Used to Be Horses Here sia un disco da prendere in blocco,
ciclo di canzoni che vanno lette nel loro susseguirsi di luci e ombre,
di ricordi e nostalgie, ammantate da sprazzi di vibrante country bagnato
di gospel, di lucentezza folk rock e da una coda di archi che più che
appesantire le ballate, sembra offrire una chiave di ulteriore intimità
alle confessioni della protagonista.
Di sicuro sono lontani gli esordi più schietti e di impostazione roots
elettrica che la fecero accostare per l’ennesima volta a una delle tante
discepole di Lucinda Williams, sebbene i dischi pubblicati per l’etichetta
Wildflower di Judy Collins e l’amicizia con Mary Gauthier avrebbero dovuto
chiarire la matrice folk d’autore di Amy, negli anni emersa con sempre
maggiore convinzione in ottimi lavori quali That
Kind of Girl o How
To Sleep In A Stormy Boat. There Used to Be Horses Here
è filgio di questo percoso, ma con l’impronta di una storia così connessa
con la vita stessa dell’autrice (e la quale richiama parecchio un altro
album, quel Black Cadillac pubblicato da Rosanne Cash dopo la scomparsa
del padre Johnny), da rendere subito speciali le armonie acustiche e le
immagini innalzate in Down the Trail,
vestito sonoro che ricorda le ballad di Ray Lamontagne, nella commovente
title track, con una della migliori performance vocali della Speace lungo
tutto il disco, e nell’ultimo saluto al feretro del padre con l’inno gioioso
di Hallelujah Trail.
Tale trittico iniziale è un colpo dritto al centro del bersaglio, il resto
segue di pari intensità, qualche volta forse assecondando troppo l’enfasi
degli arrangiamenti (Gried is a Lonely Land, Give Me Love,
la soffice partitura per piano e archi di Mother is a Country),
ma mai eccedendo, anzi, con un accoglimento delle ferite (e delle rinconciliazioni,
prima fra tutte proprio quella con la figura del padre di Amy) che nel
prosieguo di There Used to Be Horses Here incontrano la potenza
selvaggia di River Rise, suono country folk imbastito fra elettriche
e mandolino, l’ondeggiare cristallino di Shotgun Hearts, fino alla
significativa chiusura con Don’t Let Us get Sick,
unica cover presente, brano di Warren Zevon che in quelle parole di auspicio,
Don't let us get sick/ Don't let us get old/ Don't let us get stupid,
all right?, sembra cercare le ragioni di quanto accaduto all’autrice.