Accade un fatto curioso
riguardo a Van Morrison. Va bene, nessuno credo possa discutere
che Van “The Man” abbia dato il meglio con la sua produzione passata.
E va ricordato, per contro, che rispetto a molti suoi contemporanei, lui
è uno dei pochi artisti che si può vantare di aver tenuto un livello eccelso
anche negli anni Ottanta (riconosciuto da tutti ai tempi), trovando il
suono giusto per continuare ad apperire moderno senza troppi compromessi,
anche in quegli anni difficili per la prima generazione rock. Poi però,
a partire dal decennio successivo, improvvisamente la sua musica è diventata
"vecchia", anzi, forse il simbolo del vecchio per antonomasia
per tantissime riviste musicali (anche nostrane), un po’ per l’effettivo
calo di ispirazione, unito a quel senso di “rimescolamento della stessa
minestra” che i suoi dischi hanno avuto, un po’ però anche per un insensato
e aprioristico ostracismo di una critica che lo ha trattato con maggiore
severità rispetto a molti suoi colleghi, altrettanto non più brillanti
come un tempo, molto spesso ignorando completamente le sue uscite discografiche.
Invece, per questo Latest Record Project, Vol. 1 si sono
tutti affrettati a parlarne, perché il disco è stato anticipato da una
serie di dichiarazioni e “instant-songs” che seguivano un po’ il filone
complottista del periodo Covid, e quindi, per la prima volta dopo anni
(o forse proprio per la prima volta in assoluto), anche su Van Morrison
c’è stata la possibilità di montare un caso mediatico utile a strappare
qualche click. Alcuni di quei brani sono qui presenti, ma neanche tutti,
lasciando presagire davvero un secondo volume. Si impone dunque una riflessione:
da quando, infatti, riteniamo davvero gli artisti (musicali, ma non solo)
importanti per quello che pensano e non per come lo esprimono, tanto da
usare la sensatezza dei loro discorsi come unico metro di giudizio della
loro opera? Quando è successo che ci siamo davvero curati del fatto che
il loro pensiero fosse coerente, logico, etico, e via dicendo? Ancora
oggi di fatto ascoltiamo un sacco di testi rock che sono infantili, ingenui,
inutilmente visionari, esagerati, incoerenti, violenti, politicamente
e socialmente non più accettabili, eppure non smettiamo di farlo neppure
quando ce ne rendiamo conto. L’artista non è colui che può tracciare un
sentiero, l’artista è colui che ti fa scoprire della sua esistenza, esprimendo
con l’arte, e non con le teorie, le emozioni che quel sentiero suscita
in lui.
Lasciamo ad altri il compito di tracciare sentieri quindi. Il discorso
vale a maggior ragione per Van Morrison: stroncare questo album
per le teorie sull’attualità che contiene (come si è affrettata a fare
molta stampa estera, anche quella che da tempo lo ignorava) ha poco senso,
perché qui bisognerebbe invece notare che queste 28 canzoni, tra gli inevitabili
alti e bassi di una mole esagerata e, nel finale, anche un po’ sfiancante,
sono le meglio cantate, suonate, prodotte, e - in alcuni casi - anche
scritte dei suoi ultimi anni. Non che ci siano grandi novità di sorta
rispetto “al suo solito”, anche se l’assolo di chitarra quasi garage-rock
di Where Have All the Rebels Gone
è una rarità nel suo menu, e ovunque impazzano degli azzeccatissimi cori
in stile doo-wop anni Cinquanta che paradossalmente rendono più fresco
e moderno ciò che innegabilmente resta “vecchio” e passatista. Ma quella
che è diversa è proprio la sua motivazione a cantare, ad aggredire la
vita con i primi testi che da tempo non si adagiano nel quieto vivere
della sua “splendid isolation”, per dirla alla Warren Zevon. Anche a costo
di scadere ogni tanto nel patetico (vedi Why
Are You on Facebook?), un rischio
che ritengo comunque doveroso che un artista del suo calibro si prenda.
Insomma, l’ultimo disco di Van Morrison vede in pista di nuovo un uomo
che esce dal suo guscio con le armi migliori che ha, la voce e la musica,
il che mi porta a sperare che “s’incazzi” ancora di più per il volume
due.