Come passare il tempo durante
una pandemia a Los Angeles, senza la possibilità di andare in tour? Scrivendo
una lettera d’amore alla propria città! Una lettera musicale che raccolga
gli umori, i ricordi, le passioni di cinquant’anni di storia della band,
che chiarisca il loro orgoglio di figli di East L.A., ragazzi chicani
che si sono fatti largo nel mondo del rock’n’roll con una propensione
unica alla contaminazione, di ritmi e di melodie, e una conoscenza enciclopedica
dell’american music e dei suoi linguaggi tradizionali. I Los Lobos
approdano al diciassettesimo album in carriera con una raccolta di cover,
e se state pensando che si tratti di un "compitino" di passaggio,
di un momento di appannamento, o peggio di una stanca replica, concedetegli
almeno una possibilità. Scoprirete in Native Sons
un gruppo - una delle rare testimonianze di amicizia e compromesso che
è durata la bellezza di cinque decenni (gli esordi nella prima metà dei
Settanta) - che sa ancora emozionarsi come degli adolescenti curiosi,
con la differenza di una saggezza che li conferma strumentisti di qualità
eccelsa.
Suona divinamente Native Sons ed è uno scrigno di sorprese, di
eleganza, di maturità, con arrangiamenti che rispettano gli originali,
ma al tempo stesso mettono in evidenza il marchio Los Lobos, il loro rock’n’roll
meticcio che cavalca ogni possibile groove gli offra la materia che stanno
trattando. Qui ne hanno riuniti tredici esempi, con il perno centrale
della stessa title track, una ballata soul di quelle che la coppia David
Hidalgo e Louie Perez scrive a occhi chiusi, intesa perfetta per una romantica
confessione del proprio amore per Los Angeles. Intorno ci sono scelte
niente affatto scontate, un pugno di caleidoscopici viaggi tra vecchi
successi garage rock, pillole di soul psichedleico, bollenti spiriti r&b
e dolcezze folk rock.
Si parte giustamente con Love Special Delivery,
hit misconosciuta dei Thee Midnighters, tra i primi eroi rock chicani
nella stagione di metà sixties: il folletto Cesar Rosas canta e offre
la spinta giusta, i Los Lobos colgono il testimone e si sentono parte
di una tradizione. Veniamo da qui, sembrano dire, e siamo una famiglia.
Talmente vero che al disco partecipano anche i figli: al quintetto storico
(ci sono Conrad Lozano al basso - e che bassista!, vale sempre la pena
ribadirlo - e Steve Berlin al sax) si aggiungono infatti le batterie suonate
alternativamente da David Hidalgo Jr. e Jason Lozano, oltre a qualche
ospite che offre una voce in più e sviluppa tutta una serie di legami.
È una questione di connessioni questo Native Sons: si potrebbe
cominciare con Little Willie G e il figlio Jacob, che direttamente dai
War concedono la loro The World is a Ghetto,
uno dei vertici dell’album in un’intenso adattamento che incrocia funk,
percussioni e assoli liberatori. C’è l’amico Enrique Bugs Gonzalez, che
duetta in una imprevedibile Sail On, Sailor dei Beach Boys (li
avreste mai accostati ai Los Lobos?), resa con raffinatezza di dettagli.
E ancora l’eroe di culto del garage soul Barrence Whitfield, che mette
lo zampino anche in Misery, un pezzo
da novanta per l’autore Barrett Strong inciso per la Tamla Motown nel
1961 e che l’interpretazione di David Hidalgo fa letteralmente decollare.
Tutto il resto e molto di più è solo e soltanto il frutto di una band
che suona a memoria (e benissimo, mai darlo per scontato), ma riesce ancora
a far emergere le emozioni e non il freddo mestiere: nel caso basterebbe
la baldanza r&b di Never No More (ripresa dal grande Percy Mayfield)
e di Flat Top Joint (omaggio agli amici di lunga data Blasters,
compagni di ventura negli anni alla Slash records), o magari la visita
al maestro Lalo Guerrero (i Los Lobos ci collaboraroro per il progetto
Papa’s Dream), del quale viene rivista Los Chucos Suaves. Anche
se per i nostri cuori rock non si può far finta di non avere captato il
medley di Bluebird/ For What It’s Worth
dei Buffalo Springfield (la prima in una resa eccezionale, la seconda
accresciuta di nuovi significati politici, sempre attuali), che conferma
i Lupi come depositari anche della California più classica, fino a lambire
la dolcezza west coast di Jamaica Say You Will
di Jackson Browne.
Nella varietà di spunti che contiene e nell'anima da autentico party record,
Native Sons è un album che riassume in colpo solo la lungimiranza
dei veterani e l'innocenza della gioventù.