E’ un blues che prende quota
spietato, vent’anni dopo e nove dischi più tardi, e sembra che per The
Black Keys il primo amore non si scorda mai: anche se il successo
commerciale ha arriso più volte al duo di Akron, Ohio, infatti, con questo
decimo album Dan Auerbach e Patrick Carney non si ricongiungono solo metaforicamente
coi luoghi musicali dei loro esordi, e quantunque non suonino più nel
garage sotto casa i blues dei dischi del padre di Dan, oggi la loro selezione
di classici la infilano una via l’altra negli studi di registrazione privati
dell’etichetta di Auerbach, Easy Eye Sound, in quella Mecca dei sogni
musicali dove si sono trasferiti da tempo, conseguendo la maturità professionale
a Nashville, Tennessee.
Un disco come questo però le strategie di mercato o gli indici di ascolto
li piazza per un attimo in soffitta, perché non erano nemmeno la priorità
di quegli idoli, a cui lo stesso album è dedicato. E di gente come R.L.
Burnside o Junior Kimbrough è la gran parte dei pezzi; di quegli ultimi
testimoni leggendari, tanto all’epicentro di un mondo di blues, quanto
ai margini della società in quell’Afro-America più vera, che è lo stato
del Mississippi. Incalzò la loro notorietà tale Matthew Johnson, ex-studente
all’Ole Miss (l’Università del Mississippi), che fondò niente meno che
la Fat Possum, proprio per regalare a quei ritrovati musicisti un briciolo
di fama che il tempo di gioventù mai offrì loro. Quella sopraggiunse più
tardi, alla geniale intuizione di abbinare il ritrovato spirito del Delta
coll’afflato punk newyorkese dei Jon Spencer Blues Explosion, per esempio,
riscoprendone l’eccitante sodalizio elettrificato alla registrazione “in
loco” di A Ass Pocket Full Of Whiskey (1996), per Burnside; oppure
alla seduta di incisione diretta di All Night Long (1992) per Junior
Kimbrough, da capolavoro blues per la rivista “Rolling Stone”, alla tournée
con Iggy Pop.
E’ stato così a quell’ultimo blues-revival degli anni Novanta che si accoda
la passione dei Black Keys, muovendo l’attuale spirito pioneristico
di Dan Auerbach nel conservare certe roots musicali, come quello di Jack
White, quanto all’entusiasmo di scoperte di ricercatori come Alan Lomax,
David Evans, George Mitchell, William Ferris e Jim Dickinson tenne dietro
tutta la rivisitazione blues degli anni Sessanta. In quella, Burnside
e Kimbrough non trovarono la loro nicchia e persino nella rinascita più
recente, il loro è stato un fugace brillare: appena prima che “qualcuno”
gli presentasse il conto. I Black Keys sembrano invece fermare l’auto
un’altra volta al Sud, come la macchina nella foto di William Eggleston
in copertina; Delta Kream però non è solo quel vecchio diner,
ma l’allegoria della loro musica migliore. Per ritrovarla, i due chiamano
a rapporto l’altra faccia di quel groove: Kenny Brown e Eric Deaton, la
chitarra e il basso dietro il suono di Burnside e Kimbrough.
Dieci ore in studio, un paio di sessions e la parentesi da un altro disco
in corso, dà vita a un piccolo gioiellino per il puro gusto di
suonare, dove ci piace partire da cavalli di battaglia come Coal
Black Mattie di Burnside, per impaludarci in quell’impasto
scuro e melmoso, o ritrovare nell’ipnotica Stay All Night di Kimbrough
“l’atmosfera della tarda notte, la fluttuante e sognante sensazione dell’ultimo
tratto prima dell’alba” (Ted Gioia, descrivendo quel pezzo di Delta Blues).
Ma Crawling Kingsnake in apertura
è pure John Lee Hooker, da cui forse è partito un po’ anche quel suono:
non un’operazione nostalgica, ma la fotografia del blues di oggi, dove
anche dalle colline, la strada si apre e ci porta un’altra volta laggiù,
dove tutto è cominciato.