Davvero strana la storia
dei Felice Brothers da un punto di vista del “successo” (per quanto
quantificabile esso possa ancora essere). Osannati un po’ ovunque anche
a dismisura ai tempi di Tonight at the Arizona e dell’omonimo del
2008, paradossalmente non giustamente riconosciuti per il loro disco più
maturo (Yonder
is the Clock), la band di Ian e James Felice vive da qualche
anno una sorta di oblio. Non nelle nostre pagine, dove non abbiamo mai
smesso di notare che, dopo aver perso un po’ di credibilità sbagliando
il disco all’insegna del “proviamo ad essere moderni anche noi” (Celebration,
Florida del 2011), la loro produzione dell’ultimo decennio
ha avuto una linea qualitativa tutt’altro che discendente.
Anzi, From Dreams to Dust potrebbe addirittura rivelarsi
il loro disco migliore, perché sarà la forza dell’esperienza, ma stavolta
i quattro (ai fratelli si aggiungono oggi Will Lawrence e Jesske Hume)
ce l’hanno davvero fatta a unire la loro grande ispirazione da American-Band,
ben evidenziata da album già molto validi come Undress
o Life
in the Dark, con uno spirito più in linea con gli anni Duemila.
Che sia la volta buona che riusciamo a farli ascoltare anche a chi li
riteneva “troppo country”? Non che ci siano grandi stravolgimenti, ma
la straordinaria apertura di Jazz on the Autobahn,
storia di una coppia in fuga da vari disastri, penso sia un brano che
ha una carica emotiva che travalica i gusti di genere.
Per il resto, il disco vive sul contrasto tra tempi più movimentati (To-do
List) e ballate sofferte, con testi che riflettono sullo scorrere
del tempo e la consapevolezza di stare invecchiando in un mondo che non
si ha più la forza (e forse la voglia) di cambiare (l’evocativa Land
Of Yesterdays). Basta comunque sentire il drumming ossessivo di Money
Talks (altro episodio davvero notevole) per capire l’ottimo
sforzo produttivo della band, che per il resto offre un repertorio comunque
in linea con la propria filosofia, come le sognanti aperture melodiche
dell’ipnotica Valium, le riflessioni sulla celebrità di Inferno
(“Who's that singing in the land of the falling rain? I think it's Kurt
Cobain”) e l’ottimo up-tempo di Celebrity X,
e qualche country strascicato come Silverfish.
Tra gli ospiti del disco troviamo i Bright Eyes Nathaniel Walcott alla
tromba e Mike Mogis alla pedal steel, ma in generale i quattro hanno fatto
tutto da soli, dimostrandosi ormai gruppo su cui contare a colpo sicuro...
Non perdendo tra l’altro mai quel pizzico di ironia che li ha sempre caratterizzati,
quella che negli otto minuti conclusivi di We
Shall Live Again, bellissimo canto corale di riconciliazione
con lo spirito, gli fa cantare Anche se le nostre religioni sono le
stesse dei piccioni, da Francesco d'Assisi ai fan degli AC/DC, tutti vivremo
di nuovo, non compromettendo la tensione emotiva di un disco davvero
intenso.