È una stagione felice per
“l’altra metà del cielo” dell’Americana, un tempo di rinascenza per molte
giovani voci che guardano alla tradizione country folk e alle sue varianti
più o meno elettriche e d’autore. L’ultima a sedersi a tavola, ma già
tra le più mature e convincenti, è Margo Cilker da Enterprise,
Oregon, duemila anime nel profondo ovest, terra di allevatori da cui lei
è partita alla volta del mondo. Sei anni di gavetta nei festival indipendenti,
dalla California al salto fuori degli Stati Uniti, approdando persino
sulle coste dei Paesi Baschi, poi il ritorno a casa e l’idea di incidere
finalmente il suo esordio adulto. Occorreva soltanto qualcuno che ne cogliesse
il suono, con cui intendersi d’istinto: l’incontro fatale è avvenuto con
la collega Sera
Cahoone, che dopo avere ascoltato le prime demo acustiche di
Margo, ha accettato senza indugio di produrre il debutto Pohorylle,
mettendo insieme una squadra invidiabile di musicisti provenienti dalle
scene indipendenti di Seattle e Portland.
Nove tracce, soltanto mezz’ora di musica, come i classici del genere,
tutto quello che c’è da dire senza mai sprecare il fiato o uscire dai
margini, esaltando le armonie vocali di Margo insieme alla sorella Sarah
e la candida naturalezza di una manciata di ballate che raccontano di
amore e perdita, attraverso piccole peregrinazioni di vita e paesaggi
americani. Gli elementi della natura, il loro ancestrale richiamo, sono
essenziali per muovere il songwriting, a cominciare dal manifesto dell’album,
That River, dolce cantilena country
dove il piano di Jenny Conlee (The Decemberists) fa da timone per l’interpretazione
angelica e confessionale di Margo Cilker, per ritornare ciclicamente fra
le immagini di Flood Plain, afflitta nel suo romanzo d’amore acustico
accompagnato dai languori della pedal steel di Jason Kardong (Sera Cahoone,
Son Volt) e dal fiddle di Mirabai Peart (Joanna Newsom).
Sequenze narrative e un baldanzoso taglio sonoro tra southern e honky
tonk emergono nell’andatura dinoccolata di Kevin
Johnson e della deliziosa Tehachapi
(luogo californiano che non saltava alla memoria dai tempi del classico
Willin’ dei Little Feat). Quest’ultima si infiamma dei colori della
Louisiana grazie alla partecipazione vivace dei fiati e dell’accordion,
cedendo poi il passo all’elegia country di Barbed Wire (Belly Crawl),
ancora trafitta da una steel guitar che è la quintessenza di uno stile
e di un modo di narrare in musica. Ballate tinteggiate di quei toni crepuscolari
(Chesters, Wine in the World) e di quei sobbalzi tradizionalisti
(Brother Taxman Preacher) che hanno valso a Margo gli immancabili
(e spesso un po’ troppo pigri a livello critico) confronti con le eroine
Gillian Welch e Lucinda Williams: della prima echeggia una vaga presenza
sullo scenario musicale dell’intero disco, della seconda invece manca
del tutto la crudezza e la rabbia rock, lasciando semmai pensare alla
nobile scuola che da Emmylou Harris approda a colleghe contemporanee di
Margo come Courtney Marie Andrews.
Il suono del cuore che letteralmente si spezza in Wine
in the World (I wish I had all of the wine in world…) è la
riprova di un bel talento, che fa della semplicità dell’immagine e di
conseguenza della stessa musica la chiave per entrare nel suo piccolo
mondo antico.