Capita a volte di sentire
dei dischi formalmente ineccepibili, ma di cogliere un qualcosa, spesso
non subito definibile, che disturba o stona. Mi è capitato, per esempio,
con il nuovo album di Billy Bragg, The Million Things That Never
Happened. Il grande combattente folk inglese è ormai da qualche tempo
un artista di american-music a tempo pieno, diciamo da dopo l’incontro
fondamentale con i Wilco via Woody Guthrie. E così le sue produzioni degli
anni 2000 hanno seguito la linea di una elegante e sempre più raffinata
roots-music americana che ha prodotto titoli belli come Tooth
& Nail (2013) e Bridges Not Walls (2017) e la collaborazione
di puro interesse storico nella tradizione statunitense con Joe Henry
(Shine
a Light: Field Recordings from the Great American Railroad).
Insomma, che non possa essere più il Bragg barricadiero degli anni Ottanta
lo sapevamo già, e probabilmente quell’artista è andato in pensione insieme
al suo bersaglio preferito, Margareth Thatcher. Ma il Bragg che sentiamo
in queste canzoni appare subito diverso anche da quello più recente proprio
nel tono della voce, che è invecchiata, scesa di tono, e ha forse volutamente
perso quel tocco british “alla Morrissey” che caratterizzava il suo canto
nei giorni gloriosi. Soprattutto, quello che un po’ si fa fatica a digerire
da fans di vecchia data, è che manca in quella voce l’urgenza di dire
qualcosa di importante, quando ora si sente invece la richiesta di pazienza
nell’ascoltare storie che non sono più solo di rabbia per quello che succede
nel mondo, ma vicende personali. “Ma ora parliamo un po’ di me, per cui
sedetevi tranquilli e ascoltate” sembra dire questo Bragg, calmo e intimista
anche nei suoni e in una produzione molto levigata, con addirittura qualche
leziosità radio-friendly come Pass It On.
Significativo, per esempio, che nella scrittura di uno dei brani più convincenti
del disco (Ten Mysterious
Photos That Can’t Be Explained), ci sia coinvolto addirittura
il figlio, quasi a declamare la voglia di una dimensione più intima e
famigliare per la sua vecchiaia. Il che non vuol dire assolutamente che
si stia ritraendo dal suo ruolo di guida di pensiero comune (“Sono abituato
alle persone che ascoltano quello che ho da dire / E trovo difficile pensare
che potrebbe essere d'aiuto se mi allontanassi” canta in Mid-Century
Modern), ma semplicemente non è più tempo che sia lui, a 63
anni, a giudicare i tempi e dettare i modi per viverli (“I ragazzi che
tirano giù le statue, mi sfidano a vedere il divario tra l'uomo che sono
e l'uomo che voglio essere” canta). Lui stesso, presentando il disco,
ha scherzato sul fatto che non può essere un neo-nonno, che deve mettersi
gli occhiali per leggere la setlist da suonare nei concerti, il leader
di una protesta, eppure anche in queste canzoni serpeggia sempre qua e
là qualche indicazione sulla via da seguire, e qualche frecciata più o
meno evidente al nuovo avversario di casa Boris Johnson. Per il resto
si parla di amore per una moglie che si è ammalata proprio durante il
lockdown e di un senso di solitudine generale che pare non più solo politico,
ma personale.
Un disco importante per lui, ma che forse finisce a renderlo meno unico
e inimitabile e più simile a tanti altri bravi cantautori di genere. O
forse è solo un disco che necessita tempo per diventare importante anche
per noi, e ovviamente siamo sempre disposti a concederglielo.