Son passati 40 anni esatti dall’uscita di Los
Angeles, uno degli esordi più fulminanti e meno invecchiati del rock
californiano dell’epoca, vera e propria Stele di Rosetta per capire tutto
il rock sotterraneo USA degli anni 80, eppure siamo ancora qui oggi a
recensire un disco degli X. Non me l’aspettavo devo dire, anche
se la reunion dei Flesh
Eaters dello scorso anno aveva già fatto capire che John Doe
e il batterista DJ Bonebrake erano in vena di rimpatriate. La seconda
era della band d’altronde aveva lasciato un po’ di amaro in bocca dopo
quattro album senza difetti, a causa del disperato tentativo di aggiornare
un sound probabilmente inaggiornabile, prima abbracciando le tastiere
degli anni 80 (Ain’t Life Grand del 1985), poi facendosi guidare
da Dave Alvin nel mondo della roots music con il comunque convincente
See How We Are del 1987, e infine con il disastro di Hey Zeus!,
cioè come suonare già vecchi nel 1993, anno in cui davvero succedeva di
tutto nel rock, e non approfittarne fu davvero un sacrilegio.
Nel frattempo John Doe si è costruito una più che soddisfacente carriera
da rocker americano di razza, dimostrando che l’episodio via-Dave Alvin
non era un caso, ma una regola futura, mentre Exene Cervenka, dopo due
discreti album quasi da cantautrice come Old Wives’ Tales e Running
Sacred, ha fatto più fatica a trovare una sua regolarità artistica.
Gli X si riuniscono dopo 27 anni dall’ultimo album (ci fu un singolo natalizio
del 2009 a rompere il silenzio), ma ben 35 dall’ultima uscita con questa
formazione, che vede quindi tornare in squadra il chitarrista Billy
Zoom, di nuovo in sella nonostante abbia passato gli ultimi anni tra
una chemioterapia e un’altra. Ma la vera sorpresa è che Alphabetland
pare davvero ripartire da zero, suona come se fosse il loro terzo album
uscito appena dopo Wild Gift del 1981, e se ormai non ci si meraviglia
più di quanta energia si possa ancora avere a settant’anni, impressiona
però sentire un disco che pare registrato davvero in uno scantinato della
Sunset Strip di Los Angeles da una banda di ragazzini con tanta rabbia
in corpo da sfogare.
Insomma, l’aria di revival tira più sulla carta che in canzoni come la
pogo-song Delta 88 Nightmare o Star
Chambered, dove l’alternarsi delle voci di Doe e della Cervenka ritrova
l’antica intesa. Stavolta non c’è ovviamente lo scomparso Ray Manzarek
in cabina di regia, e allora si invita Robby Krieger a dare il suo inconfondibile
tocco-Doors allo spoken finale di All the Time in the World, brano
che fa l’occhiolino al talking di Jim Morrison in The Wasp (Texas Radio
& the Big Beat). Ma il vero artefice della riuscita dell’operazione è
il produttore Rob Schnapf, l’uomo dietro molti titoli del compianto Elliott
Smith, capace di rendere il suono X decisamente attuale anche a quarant’anni
di distanza, come dimostra l’uno-due iniziale di Alphabetland
e Free. Billy Zoom pare in gran forma,
anche se non c’è un solo riff che non suoni già sentito, con pochissime
variazioni sul tema (la danzereccia Cyrano DeBerger’s Back, un
vecchio scarto proprio di Los Angeles), giusto per tirare a 27 minuti
di un rock che forse può ancora dire qualcosa anche alle giovani generazioni.