Jonathan Wilson
Dixie Blur
[Bella Union
2020]

songsofjonathanwilson.com

File Under: cosmica americana

di Domenico Grio (01/04/2020)

Gli album di Jonathan Wilson, piacciano o meno, sono un’esperienza fully immersive, da approcciare con mente lucida e prospettive fluide. Nei suoi dischi si accede dalla porta d’ingresso ma con passo felpato, senza foga. Si sbircia prudenzialmente a destra e manca e poi, una volta ficcato il naso dentro, si cerca la strada più agevole per esplorarne ogni singolo interstizio. Ci si deve muovere, con spirito libero e volitivo, tra trame articolate, contaminazioni folk e jazz, fervori psichedelici, atmosfere rarefatte e fertili spazi sonori che si dilatano, con sobria gradualità, nell’ambito di schemi classici dalle raffinate aperture melodiche. E il bello inoltre è che, pur se spesso concepiti al di fuori di un progetto omogeneo, hanno una struttura monolitica, alla stregua di una narrazione liquida ed uniforme da assimilare d’un fiato.

Dixie Blur non fa eccezione, anzi esaspera questi concetti, muovendosi a ritroso lungo il tragitto artistico di Jonathan, traducendo e sintetizzando le linee guida codificate negli anni di carriera vissuti tra North Carolina (Forest City è la città che gli ha dato i natali), California e Tennessee. L’approdo al Sound Emporium Studio di Cowboy Jack Clement quindi non è affatto casuale. Nashville è il luogo ideale per rimanere agganciato alle radici e al contempo tirare fuori il meglio delle spinte moderniste. In questo senso il lavoro di produzione, portato a termine con il supporto di Pat Sansone dei Wilco, riesce a preservare quel mood sapido dei Seventies, collocando però l’album nel XXI secolo, mentre l’intervento di musicisti straordinari, Mark O’Connor e Kenny Vaughan (a lungo collaboratore di Marty Stuart) su tutti, serve a rimpinguare un bottino già decisamente cospicuo.

Diciamolo senza mezze parole, questo disco è magnifico, nel senso letterale del termine (magnus + facere), grande per l’architettura dei suoni, per l’impatto emotivo, per la varietà di scenari che propone. Jonathan Wilson ha raggiunto la piena maturità artistica, sostenuto da solide conoscenze musicali e da visioni che indirizzano lo sguardo oltre la rigidità degli schemi, oltre il moto routinario delle idee, oltre l’ovvio. C’è la giusta dose di intelletto e di istinto che consente di passare con disinvoltura da una Just For Love, che avrebbe fatto la gioia del Re Cremisi, all’eccellente bluegrass di Heaven Making Love e El Camino Real, dal country notturno di Riding The Blinds fino a O’Girl, elegante prova d’autore immersa nei profumi west coast e guarnita da accenti southern, dalle dolcissime tessiture folk di Platform e Pirate alla malinconica 69 Corvette, primo singolo del disco, in cui svetta (e non è certo il solo episodio) il sontuoso violino di Mark O’Connor.

Registrato in soli sei giorni “live” in studio, con pochissime sovraincisioni, giovandosi delle idee e delle intuizioni di tutti i musicisti intervenuti, Dixie Blur è l’album che Jonathan doveva fare. Dopo aver esplorato la sua arte e consegnato la sua splendida trilogia “californiana” (Gentle Spirit, Fanfare e Rare Birds), dopo i successi di pubblico e critica, l’abbraccio ideale dei più prestigiosi colleghi (tra gli altri David Crosby, Jackson Browne, Steve Earle ed Elvis Costello), dopo un 2018 trascorso in tour con Roger Waters, era il tempo di “riportare tutto a casa”. La strada a dettare le regole del viaggio, il tempo a segnare il passo, uno zaino in spalla a portare il peso di esperienze e ricordi, il sorriso in volto di chi è consapevole di avercela fatta e sa anche che dal portico del proprio fanciullesco rifugio, la luce brilla fortissima e le mete poste lungo l’orizzonte si vedono più nitide e più seducenti.



    


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