Un viaggio nella stratosfera
rock, quella psichedelica e aperta alle “gioie” della stagione allucinata
e allucinogena di fine sixties: The Thid Mind è innanzi tutto un
omaggio a quel concetto aperto di improvvisazione elettrica che ha infiammato
un’epoca di grandi utopie americane, quando la California dettava il passo
e San Francisco e dintorni erano luoghi magici, dove immaginare un’altra
società possibile. Nel nome, forse, un omaggio alla Beat Generation e
a uno dei suoi rappresentanti più iconici e controversi, William Burroughs,
che negli anni Settanta pubblicò insieme all’amico Brion Gysin un omonimo
libro, raccolta di brevi scritti e poesie nel solco della cosiddetta tecnica
linguistica del cut-up. Nella musica, certamente un esplicito monumento
eretto al rock dalle tinte acide e blueseggianti di quegli anni, con sei
brani in scaletta di cui cinque cover d’eccezione e un originale altrettanto
invischiato con gli stili di riferimento.
La band ruota attorno a un manipolo di musicisti, californiani e non solo,
di comprovata esperienza: in prima linea ci sono la chitarra affilata
e la voce di Dave Alvin, in libera uscita dal suo girovagare Americana,
spalla a spalla con la sei corde e le tastiere di David Immerglück (conosciuto
per il suo lavoro insieme ai Counting Crows), il basso di Victor Krummenacher
(dai geniali Camper Van Beethoven) e lo straordinario batterista Michael
Jerome (in anni recenti nella band di Richard Thompson). Ultima ma non
ultima l’ospite femminile Jesse Sykes, rediviva stella perduta
dell’alternative country con i Sweet Hereafter, che qui compare ai cori
nel classico di Fred Neil, The Dolphins,
ma soprattutto come voce solista nella immaginifica e fluttuante
Morning Dew, folk song divenuta poi uno standard dei primi
Grateful Dead (la incisero sul primo disco del 1967).
Il tenore è quello della totale libertà d’espressione, senza schemi prefissati:
i musicisti si sono trovati in studio, faccia a faccia, lasciando fluire
emozioni e intuizioni, anche se la preparazione e l’inventiva hanno giocato
un ruolo non indifferente, potete scommetterci. Non sarebbero altrimenti
uscite in questo modo le trame strumentali dell’apripista Journey in
Satchidananda, di Alice Coltrane, atmosferica introduzione al mondo
sommerso dei Third Mind. In un colpo solo entrano dalla finestra i fantasmi
di John Coltrane e Miles Davis, anche se l’indirizzo sembra più quello
dei Grateful Dead, periodo Anthem of the Sun e Aoxomoxoa.
Le altre due tracce non cantate sono l’originale Claudia
Cardinale, anche nel titolo un evidente tributo alla bellezza
delle suggestioni da spaghetti western ("C’era una volta il West",
e dove se no?), con il tono epico e spanish dettato dalla chitarra, fra
Quicksilver Messenger Service e Santana, e soprattutto la lunga suite
East/ West (pezzo forte di casa Paul
Butterfield Blues Band, allora con la solista di Mike Bloomfield), sedici
minuti e mezzo di autentico tour de force, blues lisergico e profumi di
oriente che danzano sull’ordito delle chitarre di Alvin e Immerglück.
Nella prima edizione in cd e vinile sono offerte altre due versioni del
brano, con i mixaggi curati da Tchad Blake e Clay Blair. E così,
dopo averci condotto su Marte, The Third Mind tornano a terra con la furente
rabbia garage rock di Reverberation,
un inchino al genio confuso di Roky Erickson e dei suoi 13th Floor Elevators.
Disco in equilibrio fra ricordi, citazioni e sincera adesione allo spirito
libertario di un rock’n’roll all’apice della sua espressività di rottura.
E' un tempo passato ormai, ma arde ancora sotto le ceneri.