Ammetto che non è mica facile
spiegare a qualche scettico o detrattore perché si considera Chris
Stapleton un artista importante. Di fatto, nel giro di tre album (se
si considerano i due From A Room del 2017 come opera unica), Stapleton
si è accaparrato la palma di miglior artista in attività in quella nicchia
di country figlio degli “outlaws” (artistici e non di fatto, anche se
non sempre) degli anni Settanta, che ancora consideriamo degna di essere
seguita. Non che la concorrenza sia stata tanta, considerando che le nostre
speranze riposte in Jamey Johnson (autore tra il 2008 e il 2010 di due
grandissimi album di genere) si sono perse nella sua inspiegabile assenza,
e il seppure meritevole Shooter Jennings si è dimostrato troppo discontinuo.
Eppure anche Starting Over continua come i suoi predecessori
a non muovere un passo in là oltre la tradizione, nonostante nel frattempo
Stapleton come personaggio abbia avuto anche molta visibilità nel mondo
del pop (ha collaborato con Justin Timberlake ed Ed Sheeran), e forse
è meglio così se ci torna in mente l’irricevibile Sound & Fury
licenziato l’anno scorso da uno Sturgill Simpson in vena di spacconate
(anche se lui resta comunque il più diretto “concorrente” tra le nuove
leve della country-music).
Il punto non è sottolineare quanto nessuna di queste canzoni abbia sapore
di originalità o modernità (forse solo la soul ballad Cold
che invade addirittura il campo di Michael Kiwanuka o una You Should
Probably Leave che fa il verso a Al Green escono dal seminato), o
quanto (inutile girarci troppo intorno) Maggie’s Song sia The
Weight della Band sotto mentite spoglie, o ancora quanto certe cavalcate
southern rock come Hillbilly Blood siano in fondo le stesse che
ci offrivano persino i Lynyrd Skynyrd riformati di Johnny Van Zant. Il
punto è che in queste 14 canzoni (stavolta non ha diviso in due il disco,
preferendo uscire in unica lunga soluzione) soffia qualcosa di sempre
pienamente convincente, colpiscono subito il segno, e sarà la sua voce
che buca le casse, o la produzione che non concede sbavature di Dave
Cobb, nuovo Re Mida della Nashville che piace a noi (nel suo palmares
a soli 46 anni ci sono Sturgill Simpson, John Prine, Brandi Carlile, Jason
Isbell, ma anche la fortunata soundtrack di A Star IS Born per Lady Gaga),
ma qui tutto funziona a dovere.
Stapleton poi ha l’intelligenza di chiamare le persone giuste a collaborare
alla scrittura, e così scorrendo i credits rivediamo vecchi nomi cari
agli amanti degli outsiders della roots music come lo scomparso Tim Krekel
(di cui riadatta Whiskey Sunrise) o l’ex NRBQ Al Anderson (Devil
Always Made Me Think Twice), o ancora più spesso il vero motore del
disco, il chitarrista degli Heartbreakers Mike Campbell, che qui con il
vecchio compare Benmont Tench che si sobbarca tutte le tastiere, dimostra
ancora di saper dare vita alla migliore backing-band della musica americana.
Bastano loro due, insomma, a tenere alta l’asticella qualitativa di un
disco che azzecca anche le cover, ben due prese dal songbook di Guy Clark
(Worry B Gone, Old Friends) e la sorpresa di Joy
of My Life, love-song senza troppe pretese del John Fogerty
di Blue Moon Swamp, che Stapleton sa rendere anche migliore dell’originale.
Alla fine, direte voi, ancora non ho spiegato bene perché tutto ciò sia
da considerarsi degno della nostra maggiore attenzione, ma vi avevo avvertito
all’inizio che non sarebbe stato facile.