Volata da Memphis a Los Angeles
e lasciata la confortevole zona della Third Man Records di Jack White
(che ne sponsorizzò l’esordio), in favore delle ambizioni da prima stella
di una major discografica, Margo Price compie il passo definitivo:
non più novella cuginetta di Emmylou Harris e ambasciatrice di un honky
tonk sanguigno, ma sorella minore di Stevie Nicks, alla ricerca di un
sofisticato equilibrio tra campagna e città, fra country dai sapori vintage
ed eleganza pop rock. Attraversato da bramosia e irrequietezza, con una
produzione che si impone subito come l’elemento decisivo, That's
How Rumors Get Started è il disco che spezza i legami, apre ai
desideri e mette al centro la voce di Margo, il suo ruolo di prima donna,
con i pro e i contro di una simile operazione.
Tirate le somme, e perdonati un paio di scivoloni lungo il percorso, ne
esce vincitrice con un suono e uno stile per le mani, sorretta dai contributi
di una band stellare che l’amico, e altrettanto ambizioso musicista, Sturgill
Simpson le ha messo a disposizione: sono presenti, infatti, il piano
e l’organo di Benmonth Tench (Tom Petty & The Heartbreakers) a fare la
differenza, così come le chitarre di Matt Sweeney e del compagno di Margo,
Jeremy Ivey, e persino il basso di un turnista di lusso come Pino Palladino.
Il sound di That's How Rumors Get Started ne assorbe tutto il mestiere,
senza tuttavia togliere quel piglio di freschezza ed energia che appartiene
soltanto all’interpretazione della protagonista. Margo Price non sembra
voler rinunciare alle sue radici, ma allo stesso tempo non rifiuta il
nuovo ruolo da diva, arroganza compresa. Così il suo castello dei desideri
non scricchiola sotto i colpi dell’impresa: le danze si aprono con i toni
nostalgici della title track, che pare sbucare dalla California dei Fleetwood
Mac di Rumours, pop di classe spruzzato da sentimenti Americana, lasciando
quindi entrare l’aria frizzante di un mid tempo come Letting
me Down.
Quando giungono i saturi riff elettrici di Twinkle Twinkle, risulta chiaro
che l’album cavalcherà tutte le gradazioni del cuore di Margo: spezzato
ma indomito, affronta intime questioni sentimentali ma anche riflessioni
sul prezzo del successo e l’immancabile tensione dell’essere musicista
in perenne viaggio. L’alchimia migliore è raggiunta nelle sofisticazioni
tra pop e soul di Hey Child, con un
coro ad innalzare la temperatura gospel, e della gemella Prisoner of
the Highway, chitarre e sventagliate di organo che sono state colte
presso gli East West Studios di Los Angeles, ma sotto le ceneri bruciano
southern soul memphisiano. Dalla dimensione raccolta di Stone Me
alla passione sprigionata in Gone to Stay, la forma ballata domina
incontrastata l’anima del disco, ricordando un tentativo molto simile
fatto anni fa dalla collega Tift Merritt (nell’incantevole Tambourine),
ma non altrettanto fortunata a livello critico.
Capita, e così Margo Price raccoglie oggi, persino con meriti eccessivi,
il frutto dei semi sparsi da altre in passato, sfrecciando con il vento
in poppa: il giocattolo le sfugge di mano raramente (Heartless Mind
vira tra pop sintetico e new wave come volesse diventare la nuova Blondie;
lo struggimento bluesy di What Happened to Our Love si gonfia con
troppa enfasi nel finale), tanto che nella tensione ritmica inesplosa
di I’d Die for You, una rincorsa per
voce e chitarra elettrica, è racchiusa tutta la fierezza dell’autrice.