Ispirato da una frase innocente della figlia, con
lo sguardo rivolto al cielo, Lightning, Show Us Your Stuff interrompe
in parte il viaggio “nashvilliano” di Grant-Lee Phillips, lo stesso
che lo aveva portato al prezioso dittico di ispirazione roots e folk rock
formato da The Narrows e Widdershins.
Soprattutto sembrano essere riposti alle spalle i fremiti elettrici e
la visione dura e politica sull’America che il disco precedente faceva
emergere con rinnovata energia, offrendo una delle versioni più rock di
Phillips da molto tempo a quella parte.
Il nuovo corso si riallaccia semmai idealmente alla delicatezza cantautorale
di un album quale Virginia Creeper (ma non toccandone le profondità
di scrittura) e persino evocando (a grande distanza, sia chiaro) certe
commistioni fra melodia e tradizione che furono di Mighty Joe Moon
(forse l’ultimo grande album dei Grant Lee Buffalo, anno di grazia 1994).
Sono ballate per un mondo ferito, per anime insicure e vulnerabili, quelle
che Phillips dice di avere raccolto: un album che affronta la fragilità
delle nostre vite moderne, parole dirette dell'autore, chiedendosi cosa
spinga la gente ad andare avanti, per diradare i dubbi, il disagio di
un’esistenza che ci ha portati a dividerci l’uno con l’altro, in balia
di forze che si spingono sempre di più oltre il nostro controllo. Le intenzioni
sono chiare, altrettanto l’architterura sonora di un disco costruito per
ammansire, che si mantiene ligio ai toni confessionali di questo materiale,
scontando così una patina di maniera che non si alzerà fino alla conclusione.
Al centro c’è la voce, oggetto sacrale dell’espressività di Grant-Lee
Phillips: a volte si ha l’impressione che resti soltanto quella, certamente
di una bellezza che ferisce, mentre la band (Jay Bellerose e Jennifer
Condos alla sezione ritmica, Eric Heywood alla pedal steel, Danny T. Levin
a ricamare con dosi di fiati assortiti) esegue il compito, uno sfondo
che appare familiare e rassicurante dall’incipit di Ain’t
Done Yet, sbarazzina e carezzevole nella sua struttura pop,
al placido atterraggio con Coming To e Walking in My Sleep,
due fra gli episodi più intimi e acustici, ma anche tra i più trascurabili.
Nel mezzo ci sono piccole epifanie che appartengono senza dubbio a un
fuoriclasse della canzone americana, e che tuttavia sembrano scritte con
una accurata ricerca di stile piuttosto che guidate da una vera urgenza
espressiva: capita con l’immediatezza di Leave
a Light On, il singolo "alla Grant-Lee Phillips"
che ci si aspetta e che si rinnova nella gemella Straight to the Ground,
con le blandizie folk tutta atmosfera e raccoglimento di Lowest Low
e Mourning Dove, infine con una Sometimes You Wake Up in Charleston
che nel gioco di piano e steel guitar approccia una melodia vagamente
retro.
Fa eccezione soltanto il palpito blues, scurito alla maniera di un Tom
Waits, di Gather Up, dove l’interpretazione
di Phillips cede a una breve scintilla di sensualità che purtroppo in
altri momenti dell’album appare spesso tenuta a freno e addomesticata.
Di questo passo la visione introspettiva di Lightning, Show Us Your
Stuff risulta anche la sua più grande zavorra.