Abbiamo già fatto i conti: diventa quasi stucchevole
ripetere ogni volta l’elenco di anni, dischi, canzoni che questo texano
dalla tenacia incrollabile ha collezionato per una vita intera. Quello
che davvero sorprende, dunque, non è il dato statistico, ma il fatto che
a 87 anni Willie Nelson riesca ancora ad essere in qualche modo
rilevante a livello artistico, quando la maggior parte dei colleghi, giunti
al suo traguardo, raccoglierebbe soprattutto onori e gloria da un ritiro
dorato. A scorgere le sue ultime dieci stagioni ci si rende conto di una
vitalità incredibile, tra i naturali alti e bassi di uno che non si è
mai risparmiato con le incisioni: eppure, fra tributi sparsi, i più eclettici
possibili secondo l’estro di Willie, e album veri e propri, ci sono state
le vette di Band of Brothers e Last
Man Standing, le buone conferme di God’s Problem Child
e del più recente Ride
Me Back Home, finanche i deliziosi inganni con gli amici, come
Django & Jimmie con il compadre scomparso Merle Haggard.
First Rose of Spring è un altro tassello che si aggiunge
a questo mosaico, un disegno tuttavia questa volta più sentimentale e
dal tono elegiaco, come suggerisce la copertina in verità un po’ kitsch,
ma soprattutto una manciata di brani che dal più profondo tema del tempo
che passa e della mortalità (a più riprese indagato con franchezza da
Nelson in questi anni) si spostano in direzione di un certo ottimismo
rappacificato, scegliendo un posto luminoso e una manciata di cover che
ne possano riflettere le sfumature. Da questo punto di vista, pur confermando
il sodalizio fortunato con Buddy Cannon (produzione e scrittura), First
Rose of Spring è un album meno essenziale dei suoi predecessori, più
dolcemente manieristico, con soli due brani autografi della coppia e un
repertorio che in maniera eccentrica attinge persino tra la nuova Nashville
di Toby Keith (Don't Let the Old Man In), passando poi ai discepoli
outlaw come Chris Stapleton (Our Song), per arrivare alla pellaccia
dura di gente come Johnny Paycheck (una sua vecchia hit, la saltellante
I'm the Only Hell My Mama Ever Raised) e Billy Joe Shaver (l’inno
di We Are the Cowboys, con un esplicito
richiamo al multiculturalismo americano, giusto per ricordarci lo spirito
popolare e democratico di Willie).
L’effetto è placido, come ribadiscono la title track e un finale sentimentale
rimesso all’interpretazione di Yesterday When
I Was Young (traduzione di un classico di Charles Aznavour,
Hier Encore), ma la classe non si cancella, come peraltro dimostra proprio
l’originale ballata Blue Star, a ribadire
in particolare le qualità di una voce che incredibilmente mantiene un
fraseggio ancora intatto. Questione di stile, che si riverbera nel walzer
country di I'll Break Out Again Tonight e tra le iniezioni di swing
che spostano indietro le lancette dell’orologio con il western texano
di Just Bummin' Around: Willie Nelson si può permettere questo
ed altro, svagando fra generi e ricordi, e finché dimostrerà questo caparbio
carattere avrà sempre qualcosa di significativo da offrire.