Willie Nelson
First Rose of Spring

[Legacy/ Sony 2020]

willienelson.com

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di Fabio Cerbone (15/07/2020)

Abbiamo già fatto i conti: diventa quasi stucchevole ripetere ogni volta l’elenco di anni, dischi, canzoni che questo texano dalla tenacia incrollabile ha collezionato per una vita intera. Quello che davvero sorprende, dunque, non è il dato statistico, ma il fatto che a 87 anni Willie Nelson riesca ancora ad essere in qualche modo rilevante a livello artistico, quando la maggior parte dei colleghi, giunti al suo traguardo, raccoglierebbe soprattutto onori e gloria da un ritiro dorato. A scorgere le sue ultime dieci stagioni ci si rende conto di una vitalità incredibile, tra i naturali alti e bassi di uno che non si è mai risparmiato con le incisioni: eppure, fra tributi sparsi, i più eclettici possibili secondo l’estro di Willie, e album veri e propri, ci sono state le vette di Band of Brothers e Last Man Standing, le buone conferme di God’s Problem Child e del più recente Ride Me Back Home, finanche i deliziosi inganni con gli amici, come Django & Jimmie con il compadre scomparso Merle Haggard.

First Rose of Spring è un altro tassello che si aggiunge a questo mosaico, un disegno tuttavia questa volta più sentimentale e dal tono elegiaco, come suggerisce la copertina in verità un po’ kitsch, ma soprattutto una manciata di brani che dal più profondo tema del tempo che passa e della mortalità (a più riprese indagato con franchezza da Nelson in questi anni) si spostano in direzione di un certo ottimismo rappacificato, scegliendo un posto luminoso e una manciata di cover che ne possano riflettere le sfumature. Da questo punto di vista, pur confermando il sodalizio fortunato con Buddy Cannon (produzione e scrittura), First Rose of Spring è un album meno essenziale dei suoi predecessori, più dolcemente manieristico, con soli due brani autografi della coppia e un repertorio che in maniera eccentrica attinge persino tra la nuova Nashville di Toby Keith (Don't Let the Old Man In), passando poi ai discepoli outlaw come Chris Stapleton (Our Song), per arrivare alla pellaccia dura di gente come Johnny Paycheck (una sua vecchia hit, la saltellante I'm the Only Hell My Mama Ever Raised) e Billy Joe Shaver (l’inno di We Are the Cowboys, con un esplicito richiamo al multiculturalismo americano, giusto per ricordarci lo spirito popolare e democratico di Willie).

L’effetto è placido, come ribadiscono la title track e un finale sentimentale rimesso all’interpretazione di Yesterday When I Was Young (traduzione di un classico di Charles Aznavour, Hier Encore), ma la classe non si cancella, come peraltro dimostra proprio l’originale ballata Blue Star, a ribadire in particolare le qualità di una voce che incredibilmente mantiene un fraseggio ancora intatto. Questione di stile, che si riverbera nel walzer country di I'll Break Out Again Tonight e tra le iniezioni di swing che spostano indietro le lancette dell’orologio con il western texano di Just Bummin' Around: Willie Nelson si può permettere questo ed altro, svagando fra generi e ricordi, e finché dimostrerà questo caparbio carattere avrà sempre qualcosa di significativo da offrire.


    


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