Sapendo quanto le canzoni di Bob Dylan siano
spesso dei "copia e incolla" da suoi progetti abortiti o abbandonati
nel tempo, non è facile dire con sicurezza se questo Rough and Rowdy
Ways sia davvero tutto il frutto lirico di un quasi ottantenne a fine
carriera, ma per una volta facciamo finta che sia davvero così. E possiamo
farlo perché dal punto di vista dei testi, mai così corposi e pieni di
spunti da anni (nemmeno nei già parecchio verbosi Modern Times
e Tempest), c’è un filo conduttore che lega questi dieci brani,
ed è il resoconto crudo e lucido di un’epoca che si sta chiudendo. Anzi,
a leggere queste liriche, si è proprio già chiusa direi. Viene quasi da
ricordare il citazionismo del Woody Allen che redigeva l’elenco delle
cose per le quali valeva la pena vivere nel suo film Manhattan,
ma mentre Woody cercava ragioni per vivere il suo presente, Bob ci racconta
cosa abbiamo appena vissuto, una sorta di inventario, senza troppe cerimonie,
di cosa ci sta lasciando. Sarebbe dunque il commiato perfetto questo Rough
And Rowdy Ways, e sicuramente lui vuole farci credere che lo sia,
ma poi ci torna in mente che lo si disse anche per Tempest otto
anni fa, e quindi stavolta preferiamo non farci fregare. In fondo Leonard
Cohen di “ultimi album” ne ha fatti almeno quattro, no?
Se ci siamo presi qualche giorno in più prima di dire la nostra sul disco
è quindi anche perché ci vuole tempo per svestirsi dall’emotività del
momento, perché pubblicare un pezzo da diciassette minuti come Murder
Most Foul in pieno lockdown da Covid-19 è stato un colpo ad
effetto da vero showman, scoprire se poi davvero questi brani possano
essere importanti nella sua storia, è un discorso da fare con un minimo
di “senno di poi”. E in un certo senso le pecche di Rough and Rowdy
Ways sono di base le stesse dei suoi dischi auto-prodotti degli anni
2000, a partire dalla confezione spartana e poco curata, che stride non
poco con l’amore certosino che mette invece nel creare i libretti delle
Bootleg Series, una produzione stavolta leggermente più rifinita nei particolari
(e con addirittura un ospite nobile come Fiona Apple), ma sempre improntata
ad un "less is better" e un “buona la prima”, e la ormai abituale
(e un po’ fastidiosa) facile via del canonico giro blues, laddove non
gli vengono in mente melodie migliori (qui ce ne sono ben tre che certo
non possono dirsi originali nella scrittura, False Prophet, Goodbye
Jimmy Reed e Crossing the Rubicon).
Ma oltre queste annotazioni, che ci pare rimanga sempre doveroso fare,
stavolta c’è effettivamente un pugno di brani decisamente belli e importanti,
con un Dylan che torna a riaprire il cuore per una love-song come I’ve
Made Up My Mind to Give Myself to You (con quel “Non credo
che nessun altro lo abbia mai saputo, Ho deciso di donarmi a te” che sembra
quasi rivolto a tutti noi), a prodigarsi in due ballate decisamente melodiose
come Black Rider o la splendida Mother
of Muses, che suona essere la sua nuova My Back Pages (“Madre
delle Muse scatena la tua ira, Le cose che non riesco a vedere, stanno
bloccando il mio percorso, Mostrami la tua saggezza, dimmi il mio destino,
Mettimi in posizione verticale, fammi camminare dritto.”).
E poi ci sono dei veri e propri romanzi, non solo la già citata Muder
Most Foul, ma brani come I Contain Multitudes
e Key West (Philosopher Pirate), per citare altri due
episodi che metterei in una sua ideale antologia poetica per le scuole
del futuro, che meriterebbero articoli a parte, e che giustificano da
sole quel Nobel subito così controvoglia. Anche da un punto di vista dell’impatto
musicale mostrano un Dylan ispirato come non lo si sentiva dai tempi in
cui Daniel Lanois arrivava quasi a fargli violenza psicologica per farlo
esprimere al meglio. E ben venga sapere che stavolta tale sforzo l’abbia
fatto da solo, come se davvero sentisse che tutto non poteva finire tra
una canzone di Frank Sinatra e un omaggio a Irving Berlin, ma che c’è
ancora tantissimo da dire su tutto il secolo precedente che non è mai
stato detto: e davvero solo lui può dirlo meglio di tutti.