La famiglia Goldsmith - Taylor alla voce e al songwriting,
il fratellino Griffin dietro i tamburi, e tutta la band al seguito - tornano
all’ovile e riscoprono la gioia di scrivere canzoni pop rock rotonde e
colme di melodia ed elettricità, seguendo la stella californiana di una
stagione che fu. Un buon segnale che li rimette in carreggiata dopo i
tentennamenti, per non dire le vere e prorie cadute, dei predecedenti
lavori, irrisolti e ambiziosi al tempo stesso, ma franati clamorosamente
dentro un sound che non apparteneva a questi ragazzi della porta accanto.
Il cambio di prospettiva avviene anche grazie al nuovo produttore, quel
Dave Cobb di area country e Americana che si porta il gruppo in trasferta
nella sua Nashville e punta il timone nella direzione opposta rispetto
al Jonathan Wilson che aveva lavorato su Passwords.
La giravolta è evidente fin dal gracchiare della chitarra nel riff che
introduce l’ironica e disuilusa Still Feel Like
a Kid, un Taylor Goldsmith convinto e convincente che trova
parole e suoni giusti per resuscitare la sensibilità classic rock della
band, pronta a rotolare sulla strada con un occhio di riguardo alla melodia
e ai ritornelli “catchy”, quintessenza del loro fare musica. Con un ruolo
importante occupato da piano e organo (il bravo Lee Pardini), a gonfiare
le armoniose composizioni dei Dawes, tenendo a bada le smanie di
suonare per forza di cose “attuali”, la formazione californiana si ritrova
semplicemente collocata fuori del tempo, la migliore soluzione per convincere
anche gli scettici. Ritornano dunque gli amori di una volta, la stella
polare di Jackson Browne e della West Coast, che ammanta ballate quasi
perfette come Between the Zero and the One e l’irresistibile sapore
dolciastro di Don’t Fix Me, mentre
il trottare di melodia, chitarre e piano di None
of My Business o del primo singolo, più piacione, Who Do
You Think You’re Talking To? sembra flirtare con il lato più selvaggio
di quella stagione rappresentato da Warren Zevon e ci aggiunge persino
una punta di epica stradaiola dal cuore “springsteeniano”.
L’ispirazione non sarà alla pari con i loro anni migliori, che restano
quelli degli esordi, ma i Dawes del 2020 sono un gruppo che riprende a
respirare e Taylor Goldsmith un autore che dimostra il suo talento nel
tratteggiare i sentimenti di un’età adulta, quella delle responsabilità,
dei dubbi e delle paure, che nelle sue canzoni si intrecciano con una
vena disincantata che non guasta a renderle più attraenti e immediate:
capita con il battito pop sofisticato della stessa Good
Luck with Whatever, un titolo che bene riassume il senso ultimo
di questa raccolta di canzoni, così come nella dolcezza acustica di una
St. Augustine at Night che ricorda non poco l’intimità folkie
del più recente Jason Isbell, o ancora nel perfetto manuale da ballata
soft rock al tramonto di Me Especially.
Giusto un passo prima i Dawes piazzano il loro carico da novanta:
Free As We Wanna Be ha il sole dell’Eldorado californiano (che
fu) stampato in fronte, un ritornello che ti prende al gancio e quell’incedere
da ballata rock per romantici che nasconde in verità una riflessione amara
sui meccanismi della società internconnessa che ci circonda e imprigiona
tutti quanti. Bentornati a bordo.