Da dove sbuca John Craigie,
quarantenne songwriter californiano che sembra avere già una discreta
carriera alle spalle e di cui fino ad oggi non abbiamo mai sentito parlare?
Misteri di una scena musicale ormai polverizzata, che nel caso di tutto
quel sottobosco folk americano ne aumenta il fascino e anche l’anonimato,
quasi fosse una vocazione o un destino, noi costretti a inseguirne i personaggi
che sopravvivono ai margini. Una cosa è certa, Asterisk the Universe
è un album che non passa inosservato, quanto meno se avete a cuore la
canzone d’autore roots più umorale e intelligente, quella che prova a
raccontare il mondo e le esperienze del musicista e dell’uomo con gli
occhi dell’ironia e della tenerezza.
Se ne sono già accorti in molti, se è vero che il disco è probabilmente
il primo a offrire qualche attenzione sulla stampa nazionale a Craigie,
uno che tra festival sparsi, tour di spalla e comparse radiofoniche non
ha mai smesso di vagabondare, pubblicando una decina di lavori a partire
dal 2009, divisi fra studio, live e persino raccolte di cover. Il suo
tempo sembra essere qui e adesso, con dieci canzoni e una stringata scaletta
che sono il riflesso dell’understatement della sua musica, un matrimonio
riuscito, e assai curioso, fra John Prine e Al Green, se concedete l’azzardato
accostamento. Un folk rock spiritato, idealmente collocato sulla linea
che scorre tra Nashville e Memphis, roba che un collega come Todd Snider
non riesce più a offrire da anni, e che saltella su ritmi funk e un pigro
laid back sudista figlio naturalmente di JJ Cale (del quale, illuminazione,
viene ripreso il classico Crazy Mama, in tutta la sua assonnata
integrità).
Per incidere e immortalare, come afferma lo stesso John Craigie, questi
bozzetti di vita on the road, di incontri e memorie, il nostro protagonista
si è infilato in un capanno/studio di Bodega, nord della California, con
le voci del trio folk delle Rainbow Girls (le sentite di sfuggita in Used
It All Up), una piccola sezione ritmica, l’organo di Lorenzo Loera
e le tastiere di Jamie Coffis (Coffis Brothers), dando sfogo a un’indole
rilassata, tanto nel tono della voce quanto nella costruzione degli arrangiamenti,
che partono dall’orizzonte acustico di Hustlin’
e strada facendo costruiscono quel miscuglio di carezze old time e groove
memphisiano che sarà la chiave di lettura dell’intero Asterisk the
Universe. L’aria è calda e sudista ma non soffoca l’ascolto durante
l’esecuzione di Don’t Ask, mentre il primo singolo
Part Wolf insiste nel placido groviglio, portando dritti al
cuore funk di Climb Up, sorta di ode
alla perseveranza del cambiamento. Strano davvero che tutta la sceneggiatura
arrivi dalla California, perché non ne ha l’aspetto e neppure il suono:
John Craigie si accomoda sui viluppi dell’organo e l’agrodolce melodia
in Son of a Man, sul fervore gospel misto alla lunga strada del
folk rock in Don’t Deny o fra le trame dense e incupite del piccolo
capolavoro Vallecito, manco fosse
uscito da una session improvvisata di Dylan ai Muscle Shoals con Donnie
Fritts e simili personaggi da culto sudista.
Un chiacchiericcio di fondo, a riprova dell’informale ambientazione delle
registrazioni, introduce il finale di Nomads, dolciastro abbandono
per piano barrelhouse e armonica, ballata in tono da preghiera rivolta
a San Cristoforo, protettore di tutti i viaggiatori e i senza meta, musicisti
in prima fila.