Abbiamo sempre seguito con interesse la carriera
di Mary Chapin Carpenter, ormai una vera veterana della canzone
country d’autore americana, arrivata all’esordio nel 1987 con l’album
Hometown Girl (dove tra l’altro rifece Dowtown Train di
Tom Waits molto prima che Rod Stewart e Bob Seger se la litigassero) in
quel periodo d’oro della New Nashville che ci portò anche nomi come Lyle
Lovett, Dwight Yoakam e Steve Earle. Ai tempi il suo nome veniva spesso
accostato a quello di Lucinda Williams come le più promettenti autrici
della nuova scena, e non è un caso che la Carpenter vincerà un Grammy
proprio grazie alla cover di Passionate Kisses di Lucinda.
Eppure, le analogie finivano lì, perché le due possono tranquillamente
essere prese ad esempio di due modi completamente opposti di intendere
l’arte del songwriting al femminile. Laddove Lucinda ama i toni rauchi,
i testi diretti e sofferenti, e lascia spesso la polvere della strada
depositarsi sui suoni dei suoi album, la Carpenter ama l’eleganza, gli
angoli smussati, i suoni soffici, e testi personali sì, ma sempre concilianti
anche quando traspare il dolore. Per questo forse la sua storia musicale
è molto meno conosciuta da noi, dove il fenotipo della cantante country
melodica non ha mai troppo attecchito (penso a quanto è stata poco celebrata
nella nostra patria una come Emmylou Harris, anche dalla critica specializzata),
eppure la sua discografia è ormai importante (partite dall’accoppiata
Come on Come On del 1992 e Stones on The Road del 1994,
nel caso). E, soprattutto, ultimamente il sopraggiungere di una certa
età (ha passato i sessanta ormai) le sta donando una maggiore sicurezza
nei propri mezzi, già presente nei precedenti The
Things That We Are Made Of del 2016 e Sometimes
Just the Sky del 2018, ma decisamente evidente in questo
The Dirt and the Stars, che si candida fin da subito a suo miglior
disco degli anni 2000.
E che dimostra quanto ancora conti molto il lato produttivo in un’era
di home-made records, visto che se il disco suona davvero bene, sicuramente
lo si deve alla produzione di primissimo livello di Ethan Johns,
e al fatto che l’album sia stato registrato in Inghilterra negli attrezzatissimi
studi della Real World di Peter Gabriel. Segno di un budget alto, che
sta a significare che ancora il suo nome qualche cosa conta nelle alte
sfere del mondo nashvilliano, uno dei pochi dove l’industria discografica
ancora raggiunge ingenti fatturati. Vi consiglio di seguire i brani con
i testi perché il viaggio emotivo è di primo livello, poi chi la conosce
sa bene che il suo stile predilige le lente ballate intime e adotta raramente
grammatiche country classiche, ma qui l’aggiunta è che si concede qualche
brano più ruvido in zona Lucinda Williams (American
Stooge), e qualche soluzione melodica più indie-like che piacerebbe
a Ryan Adams, come All Broken Hearts Break Differently e Asking
for a Friend.
In ogni caso il disco mantiene un'intensità fortissima in tutti i brani
(particolare menzione per Old D-35),
e sebbene sappiamo che sia musica per pochi qui da noi (negli USA lei
resta una star), lo consigliamo a tutti.