Non sorprende trovare questo
esordio sulla distanza di Sam Burton - giovane autore originario
di Salt Lake City, Utah e ora residente a Los Angeles – accolto fra le
braccia della Tompkins Square, etichetta californiana di raffinato acume
folk, dedita a ristampe preziose, riscoperte di anticaglie sixties e oltre,
ma anche luogo di diffusione di nuovi talenti. Da qui sono partite, infatti,
le carriere di William Tyler, Brigid Mae Power o Ryley Walker, soltanto
per citare i più accarezzati dalla critica, e qui approda naturalmente
anche Burton, emigrato in California dopo avere lasciato dietro di sé
una scia di curiosità per le sue prime incisioni "fai-da-te",
nella cameretta di casa, e pubblicate e diffuse su cassette e circuiti
alternativi.
Il mondo che avvolge le sue ballate è molto simile a quello dei colleghi
di cui sopra, sembra provenire da una bolla temporale fatta di malinconie
folk blues e cartoline americane dai colori seppiati, di revival acustico
e profumi pastorali al tempo di rivoluzioni psichedeliche. I Can
Go with You si trattiene in equilibrio fra questa nostalgia e
un tratto aggiornato ai tempi “indie” di oggi, suoni con i quali evidentemente
Sam Burton è cresciuto (la sua prima band nello Utah attingeva a sonorità
più rock, così raccontano le cronache, e tra le righe emerge anche la
stagione "slowcore" di Red House Painters, Mojave 3 e persino
dei Mazzy Star), mediando fra passato e presente. Così l’album fugge dal
rischio di presentarsi come una semplice rievocazione storica, infilando
semmai undici ballate aggraziate e dal tono imbambolato, avvolte in languori
ora sfiorati da country cosmico, ora da un tono folk rock che non manca
di resuscitare la memoria di eroi sfortunati come Tim Hardin, Jackson
C. Frank o Fred Neil (che pensare altrimenti di un gioiello intitolato
Wave Goodbye?).
Con il dovuto rispetto delle proporzioni e senza mettere lo stesso Burton
con le spalle al muro per confronti spesso insostenibili, la dolcezza
fluttuante di Nothing Touches Me e
il vagabondare attonito e agrodolce della stessa I Can Go With You
ci introducono a una poesia delle piccole cose, american music garbata,
uniforme nei suoi tempi lenti, dove il ruolo giocato dagli arrangiamenti
e dalla produzione di Jarvis Taveniere (non a caso al lavoro in passato
con Woods, Allah Lahs e Purple Mountains) è essenziale per creare l’atmosfera.
E su quest’ultima sembra insistere buona parte del fascino di questo disco,
che se ha un difetto (trascurabile) è proprio nella sua indifferenza al
cambio di passo: scintillanti chitarre acustiche e folate di steel guitar,
dolci pianoforti, archi e contorni di voci femminili si susseguono senza
soluzione di continuità, a volte sospese nella nebbia mattutina (il risveglio
di Further from the Known, la rarefazione della melodia di I
Am No Moon), altre pronte ad assumere fragranze più agresti (Stagnant
Pool), in un clima generale che accentua costantemente i riverberi,
l’eco confortevole di armonie scovate fra gli amati sixties (She Says
that She Knows, una Can It Carry Me
dall’effluvio jazzato), fino al calare del crepuscolo di una cullante
Tomorrow is an Ending.
Folk per cuori infranti, che ancora credono che una ballata possa acquietare
l'anima.