Il grande demone celeste, o chi per lui, benedica
autori come Paul Burch, cittadino della «music-city» conosciuta
col nome di Nashville e residente nei suoi quartieri meno superficiali
e scontati, otto dischi alle spalle, una lunga, lunghissima sequela di
collaborazioni con artisti dall’estrazione più disparata, e ciò nonostante
ancora in possesso dell’ironia, dell’umoristico disincanto e della voglia
di cimentarsi in brani quali The Tell,
cronaca semiseria in formato pop-rock (Aron Lee Tasjan alle armonie vocali),
ma di un pop’n’roll essenziale e rockeggiante, contraddistinto dalla stessa
timidezza nostalgica appartenuta alle canzoni di Jonathan Richman o Ben
Vaughn, di un suo sogno riguardante Karen Allen ai tempi dei Predatori
Dell’Arca Perduta (Raiders Of The Lost Ark, 1981) di Steven Spielberg,
sogno nel quale il nostro rischiava di essere picchiato dalla medesima
anche se, lo sappiamo, sentimenti e intimidazioni, nell’attività onirica,
spesso si confondono e degli occhi sgranati, del sorriso smisurato e degli
zigomi perfetti dell’attrice, allora, ci eravamo innamorati un po’ tutti.
Dio, o chi per lui, benedica musicisti come Paul Burch, depositari di
una conoscenza enciclopedica, sufficiente a consentirgli di mettere in
piedi omaggi per nulla scontati a Buddy Holly o Jimmie Rodgers, eppure
capaci di trasmetterla, senza pedanterie o lezioni didascaliche, in opere
baciate dalla quotidianità del fare, dall’estremo contegno di un’erudizione
mai esibita, non escluso il qui presente, bellissimo Light Sensitive,
dove saltare tra il ricordo di Jean Garrigue, poetessa dell’Indiana
celebrata in una canzone recante le sue generalità e lo spirito sonoro
di una ballata anni ’50 sullo sfondo di una New Orleans tutta trombe e
spazzole jazz, e lo swing countreggiante di una Prince Ali’s Fortune
Telling Book Of Dreams — capsula spazio-temporale ammantata dall’eleganza
di Leon Redbone e dai cori di Amy Rigby — sembra la cosa più semplice
e naturale del mondo.
Allah, o chi per lui, benedica appassionati come Paul Burch e la loro
tendenza a sviluppare un legame affettivo con gli strumenti e le loro
storie, qui in Light Sensitive una Harmony Hollywood dei
tardi ’50, dalla tavola armonica curvata (regalo di Bobby Hebb, il compositore
della celeberrima Sunny), il cui costante utilizzo regala all’intero
disco una patina country, alla Chet Atkins, non gratuita né meramente
passatista, ma al contrario ricca di dettagli, sfumature, evocazioni e
spontaneità d’altri tempi, molte di esse riassunte nel dolente, irresistibile
passo tra folk-rock e psichedelia di Flight To
Spain (sulle disavventure di un viaggiatore intrappolato in
aeroporto, addirittura con Robyn Hitchcock a occuparsi di dar voce agli
annunci aeroportuali) o nelle seppiature country-blues di una Fool
About Me senza nulla da invidiare, grazie anche alla maestria della
slide di Luther Dickinson, alle pregiate ricostruzioni d’epoca di Pokey
LaFarge o Luke Winslow-King.
Odino, o chi per lui, benedica quanti, come Paul Burch, continuino a concepire
dischi nella convenzionalità del fraseggio sintattico che abbiamo sempre
conosciuto, e quindi, sì, con il r’n’r «desertico» e a tratti morriconiano
di una Love Came Back (stupenda),
inventandosi zingarate alla Dr. John (Mardi Gras In Mobile) o nel
tono chiesastico e gospel della strumentale Glider, ma non dimenticandosi,
al tempo stesso, di chiedere alla propria scrittura qualcosa in più, in
questo caso una scansione di originalità sfociata nel capolavoro Marisol,
clamorosa serenata in stile Calexico con la viola di Fats Kaplin (sua
anche la steel hawaiiana di altri episodi dell’album) a ricordarci di
quando Burch, nei panni del percussionista, contribuiva all’introverso
neo-classicismo post-country dei Lambchop (dei quali ha fatto parte dal
1998 al 2005).
Tutte queste misericordiose divinità, insomma, benedicano Paul Burch per
la capacità di rimanere fedele a se stesso e alle proprie radici attraverso
dischi come Light Sensitive, opere semplicemente così belle
e ricche di umanità da configurarsi quali àncore di salvezza in un presente
attraversato da pensieri cupi: e di questi tempi, di album simili, ne
abbiamo — noi poveri terrestri — un bisogno che il grande demone celeste,
Dio, Allah e Odino messi insieme neanche s’immaginano.