The White Buffalo
On the Widow's Walk
[
Spinefarm Records
2020]

thewhitebuffalo.com

File Under: Songs of Love and Hate

di Nicola Gervasini (01/05/2020)

Scrivo questa recensione in una data che avrebbe dovuto essere “il giorno dopo” di un concerto di White Buffalo all’Alcatraz di Milano, e sappiamo quanto questa constatazione sia triste in tempi di lockdown, ma vorrei aggiungere una speranza, e credere davvero che la nuova data, fissata per l’11 dicembre 2020, possa davvero essere realistica. Per quel giorno avremo avuto tempo di spargere la voce su questo artista, che merita senza dubbio di uscire anche dai recinti della roots-music come notorietà. E sicuramente, in una lista delle dieci migliori realtà americane di questi anni Dieci, Jake Smith, in arte appunto The White Buffalo (spesso comunque considerati una band con i fidi Matt Lynott e Christopher Hoffee), si prende un posto di primo piano.

Se l’era già meritato con i dischi precedenti, fin dagli incredibili Once Upon a Time In The West e Shadows, Greys & Evil Ways che ce lo rivelarono tra il 2012 e il 2013, ma questo On The Widow's Walk - quinto album se non si contano due cassette autoprodotte nel primo decennio dei Duemila - ora fa le cose davvero sul serio. La grandezza del disco in questione è presto detta: nulla qui è rivoluzionario, ma tutto pareva mancarci, perché Smith riesce in un colpo solo a coniugare la lezione degli Outlaw Country di metà anni Settanta (d’altronde qui a produrre il tutto c’è Shooter Jennings, quindi la linfa che scorre è quella lì) in brani come The Drifter (“I santi, i peccatori, i perdenti, i vincitori, È tutta colpa loro, Diamoci ancora un po' all’alcol e laviamoli via” canta nel ritornello), con lo spirito dell’Americana degli anni 90 (No History). Il tutto condito dall’understatement tipico dei nostri anni, che lo porta ad aprire il disco con un umile canto di dolore come Problem Solution (“Oh, dimmi cosa c'è che non va nelle mie canzoni, Cosa succede quando non le cantano tutti insieme, Quando le parole e gli accordi risultano sbagliati?”).

Ma alla fine la forza dell’album è quella di avere un atteggiamento da cantautore classico (Sycamore è una ballata che potrebbe appartenere anche a Ryan Adams, Come on Shorty ha il tipico incedere “alla Neil Young”), ma con una attenzione ai particolari e alle sfumature davvero notevole (e buon merito va anche al lavoro alle tastiere dello stesso Shooter Jennings). Il disco è vario, si passa da una ballata per piano e (finti) archi come Cursive, che sarebbe piaciuta persino agli Eagles, ad un veemente heartland-rock come Faster Than Fire, fino a vere prove d’autore come Widow’s Walk e River Of Love And Loss. La tensione esplode nel finale, nella meravigliosa The Rapture, rauco e distorto urlo disperato (“Quindi soffoco tutti i miei impulsi, Ma solo il veleno cresce, La fame ribolle dentro di me, Finché il male non trabocca”), stemperato solo dal finale romantico e ispirato (ancora una volta piano e archi) di I Don’t Know A Thing About Love.

Se non lo conoscete, partite pure da qui, e poi magari ne parliamo tutti assieme a dicembre, davanti ad una birra da bere, senza mascherina possibilmente.


    



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