Scrivo questa recensione
in una data che avrebbe dovuto essere “il giorno dopo” di un concerto
di White Buffalo all’Alcatraz di Milano, e sappiamo quanto questa
constatazione sia triste in tempi di lockdown, ma vorrei aggiungere
una speranza, e credere davvero che la nuova data, fissata per l’11 dicembre
2020, possa davvero essere realistica. Per quel giorno avremo avuto tempo
di spargere la voce su questo artista, che merita senza dubbio di uscire
anche dai recinti della roots-music come notorietà. E sicuramente, in
una lista delle dieci migliori realtà americane di questi anni Dieci,
Jake Smith, in arte appunto The White Buffalo (spesso comunque considerati
una band con i fidi Matt Lynott e Christopher Hoffee), si prende un posto
di primo piano.
Se l’era già meritato con i dischi precedenti, fin dagli incredibili Once
Upon a Time In The West e Shadows,
Greys & Evil Ways che ce lo rivelarono tra il 2012 e il 2013,
ma questo On The Widow's Walk - quinto album se non si contano
due cassette autoprodotte nel primo decennio dei Duemila - ora fa le cose
davvero sul serio. La grandezza del disco in questione è presto detta:
nulla qui è rivoluzionario, ma tutto pareva mancarci, perché Smith riesce
in un colpo solo a coniugare la lezione degli Outlaw Country di metà anni
Settanta (d’altronde qui a produrre il tutto c’è Shooter Jennings,
quindi la linfa che scorre è quella lì) in brani come The Drifter
(“I santi, i peccatori, i perdenti, i vincitori, È tutta colpa loro, Diamoci
ancora un po' all’alcol e laviamoli via” canta nel ritornello), con lo
spirito dell’Americana degli anni 90 (No History). Il tutto condito
dall’understatement tipico dei nostri anni, che lo porta ad aprire il
disco con un umile canto di dolore come Problem Solution (“Oh,
dimmi cosa c'è che non va nelle mie canzoni, Cosa succede quando non le
cantano tutti insieme, Quando le parole e gli accordi risultano sbagliati?”).
Ma alla fine la forza dell’album è quella di avere un atteggiamento da
cantautore classico (Sycamore è una
ballata che potrebbe appartenere anche a Ryan Adams, Come on Shorty
ha il tipico incedere “alla Neil Young”), ma con una attenzione ai particolari
e alle sfumature davvero notevole (e buon merito va anche al lavoro alle
tastiere dello stesso Shooter Jennings). Il disco è vario, si passa da
una ballata per piano e (finti) archi come Cursive, che sarebbe
piaciuta persino agli Eagles, ad un veemente heartland-rock come
Faster Than Fire, fino a vere prove d’autore come Widow’s
Walk e River Of Love And Loss. La tensione esplode nel finale,
nella meravigliosa The Rapture, rauco
e distorto urlo disperato (“Quindi soffoco tutti i miei impulsi, Ma solo
il veleno cresce, La fame ribolle dentro di me, Finché il male non trabocca”),
stemperato solo dal finale romantico e ispirato (ancora una volta piano
e archi) di I Don’t Know A Thing About Love.
Se non lo conoscete, partite pure da qui, e poi magari ne parliamo tutti
assieme a dicembre, davanti ad una birra da bere, senza mascherina possibilmente.