Quando si decide di chiamare un nuovo gruppo con
un nome ricollegato a una formazione gloriosa del passato, se non si è
degli sprovveduti, si è anche consapevoli delle conseguenze. C’è sicuramente
il vantaggio di un interesse mediatico maggiore, almeno all’inizio, e
di un atteggiamento benevolo da parte degli appassionati dei nomi di riferimento,
ma c’è anche il rischio che questo interesse scemi rapidamente se le fondamenta
non sono solide. Inoltre, proprio questi punti di riferimento possono
alla lunga (e non solo) rivelarsi pietre di paragone ingombranti. Sono
sicuro che Devon Allman, figlio di Gregg, Duane Betts, figlio di Dickey
e Berry Duane, figlio di Berry Oakley Jr. che non sono nomi qualunque,
ma tre membri originali della Allman Brothers Band, hanno formato la Allman
Betts Band avendo riflettuto su questo, non essendo dei novellini,
ma dei musicisti con alle spalle un certo numero di dischi a loro nome
o con altre band.
L’esordio Down
To The River ha ottenuto riscontri positivi corroborati dalle
convincenti esibizioni dal vivo della formazione che, nel frattempo, si
è consolidata con l’aggiunta delle tastiere dell’esperto John Ginty, confermando
come produttore Matt Ross-Spang (Jason Isbell, Margo Price), come studi
di registrazione i leggendari Muscle Shoals Studios dell’omonima cittadina
dell’Alabama e tra i collaboratori il paroliere Stoll Vaughan, cantautore
del Kentucky. Bless Your Heart riafferma le coordinate dell’esordio,
cercando tuttavia di ampliare le scelte sonore verso un suono roots che,
ferma restando la base sudista, ingloba rock, soul e country con venature
jazz. Devon è la voce principale in sei brani, Duane ne canta tre, in
due si affiancano, mentre per la prima volta Berry interpreta un brano.
Devon ha dei limiti di estensione e a volte si lascia andare a vocalizzi
inutili; preferisco Duane, che richiama le inflessioni paterne.
Tra i brani spiccano il singolo Pale Horse Rider,
un rock oscuro che si apre nel break strumentale con le chitarre affiancate
che ovviamente richiamano gli Allman Brothers, l’intensa Ashes
Of My Lovers, una specie di rockabilly desertico con l’armonica
di Jimmy Hall e la voce di Shannon McNally, la melodica Rivers Run
e Magnolia Road in cui, come in tutto il disco, occorre rimarcare
l’ottimo lavoro della slide di Johnny Stachela. Una citazione a parte
è dovuta al lungo strumentale jazzato Savannah’s Dream, scritto
da Duane sulla scia di famosi brani del padre, allmaniano fino al midollo,
ma non per questo meno riuscito. Non è male neppure The Doctor’s Daugher,
cantata da Berry, che ricorda i Pink Floyd più rilassati e sognanti, ma
è un po’ troppo lunga…un difetto che si può imputare al disco nel suo
insieme. Visti gli oltre 70’ di durata e la presenza di almeno un paio
di tracce non trascendentali, una sforbiciata avrebbe giovato.
La Allman Betts Band supera l’esame del secondo disco, seppure con qualche
esitazione. Peccato che la pandemia per il momento impedisca i concerti,
banco di prova ideale per valutare i progressi della formazione.