Look at
Mother Nature on the run... Neil si struggeva nel lontano 1970. E
qual è lo stato di salute della Madre Terra al tramonto del 2019? Malaticcia,
ad essere ottimisti, forse ancora capace di risollevarsi, ma con sempre
meno tempo a disposizione. Si potranno imputare mille difetti a Neil
Young, testardo, sconclusionato, inarrestabile nella sua produzione
discografica, a dir poco abbondante, ma non la sua buona fede nello sbandierare
il tema dell’ecologismo e della salvezza del pianeta, soggetto che gli
stava già a cuore nel 1990, allor quando chiudeva la sgroppata elettrica
di Ragged Glory con l’innodico mantra intitolato Mother Earth
(Natural Anthem). Di recente si è fatto spazio anche alla reprimenda
anti-comporation di Monsanto
Years, ingenua e generosa come appartiene al carattere dell’artista,
altrettanto immediato nel dare forma a questo ultimo anello della catena,
Colorado.
Questa volta però sono riapparsi al suo fianco i Crazy Horse, e
le attese per una nuova scintilla lasciavano presagire un seguito di Psychedelic
Pill, quel raccolto straripante di elettricità e beata improvvisazione
che suonava come la celebrazione dell’arte di un suono precario. Colorado
invece è un disco che si rivela più ondivago e concentrato sul gesto ribelle,
frontale e politico del messaggio, assai meno sulle dinamiche delle composizioni.
Registrato in fretta ed espressamente dal vivo come si conviene alle alchimie
dei Crazy Horse, in uno studio delle Rocky Mountains (esperienza poi immortalata
nel documentario Mountaintop, presentato in queste settimane),
è un album che abita il lato “minore” della produzione con il fedele gruppo
di riferimento, quel volto meno influente eppure di (piacevole) contorno
posizionato fra Broken Arrow e Greendale.
Sono gli episodi elettrici ad apparire, a una prima lettura, i più azzoppati:
la tensione e lo slancio, anche imperfetti, di Psychedelic Pill,
qui si trasformano in qualcosa di raccogliticcio, più utile a calcare
la sostanza del messaggio, meno a rendere appagante la forma. Le lungaggini
di She Showed Me Love ne simboleggiano
pregi e difetti: da un certo punto in poi la canzone sembra letteralmente
sfaldarsi, trascinandosi per inerzia fra le crisi istintive della chitarra
di Young. Un esercizio sentito troppe volte, buona la prima anche se un
po’ con il fiato corto: così capita in Help Me
Lose My Mind, che alterna ferocia elettrica (e di significato)
e fragilità delle voci, che si aprono alla melodia nel ritornello, e altrettanto
si ripete nel cruento rimbrotto di Shut It Down. Milky Way
è erratica e irrisolta, tra i momenti più sospesi del disco: vorrebbe
inseguire certe atmosfere crepuscolari appartenute a dischi come Sleeps
with Angels ma non ne raggiunge il pathos. I toni marinareschi di
Rainbow of Colors sono infine quanto di più scontato potesse uscire
dal cilindro dei Crazy Horse, una marcetta rock picaresca con una melodia
elementare che non appassiona (e un testo che anela alla fratellanza e
che appare altrettanto naif).
Paradossalmente sono proprio le stazioni acustiche, quando la collera
lascia il posto all’intimità, a sostenere le ragioni di Colorado:
l’apertura folk sghangherata e dylaniana con Think of Me, le docili
melodie pianistiche di Green is Blue
ed Eternity, quasi fanciullesche nella loro armonia (e con falsetto
younghiano d’ordinanza), il finale con I Do, canzone che rilfette
tutta la delicatezza e lo spleen esistenzialista del Neil Young ombroso,
che canta sussurrando a cuore aperto.
L’abbandono della baracca da parte di Frank Sampedro, ritirato nel paradiso
delle Hawaii, era noto da tempo, ma la ricomparsa di Nils Lofgren come
sostituto - da sempre un Crazy Horse onorario che ha gravitato intorno
all’amico Neil Young - non ha scalfito gli equilibri, tutt’altro: è un
apporto defilato, marginale, e di fatto la carta vincente delle sue maggiori
qualità tecniche non viene affatto giocata, preferendo semmai un’intesa
con Young che rispetti tutte le “approssimazioni” e la grezza scorza della
band, che in Colorado non fa danni, ma neppure compie miracoli.