Ci deve essere una buona
ragione se Kelsey Waldon è la prima artista da quindici anni a
questa parte, escluso il titolare, a firmare un contratto nuovo di zecca
con la Oh Boy, l’etichetta fondata da John Prine con il suo manager storico
Al Bunetta. Immaginiamo che un’icona del calibro di Prine non si spenda
facilmente, e che per concedere una possibilità a Kelsey abbia valutato
a fondo il suo talento, magari proprio in quelle occasioni nelle quali
i due musicisti hanno diviso il palco, con la Waldon a fare da spalla
nel tour del 2018. È nato in quei frangenti il rispetto per questa ragazza
del Kentucky, come tante colleghe emigrata a Nashville alla ricerca di
una carriera musicale, abbandonando famiglia e scuola da giovanissima.
Sono in effetti dieci anni che Kelsey Waldon si posiziona tra le possibili
nuove promesse del country al femminile, ben lontana però dalle evoluzioni
pop e quelle più ammiccanti al suono indie attuale delle varie Kacey Musgraves.
Un disco come White Noise/ White Lines, prodotto dalla stessa
Waldon insieme a Dan Knobler e suonato con un fidato quartetto di base,
è la dimostrazione di questa distanza e di un forte legame con la tradizione
nobile del genere, nel solco di Loretta Lynn per intenderci, e di un honky
tonk elettrico e ruspante. Auguriamo a Kelsey Waldon di farcela, anche
se non sarà facile imporre il suo nome sulla scena nazionale, soprattutto
perché, aggiungo io, White Noise/ White Lines è una raccolta che
non si discosta dal coerente percorso tracciato già con i precedenti The
Goldmine e I’ve Got a Way, segnando semmai una piccola svolta
nelle tematiche, personali e autobiografiche, così come sensibili agli
stravolgimenti della società americana (il sorpredente country funk di
Sunday’s Children, con relativo invito
a far cadere i muri, immaginari e reali, che si vorrebbero costruire).
È il racconto della vita stessa di Kelsey a fare da sfondo a questi brani,
che si aprono con lo sferragliante country rock di Anyhow,
rivendicazione della vita on the road come musicista, per proseguire con
il sound più acuminato della stessa White Noise/ White Lines, dove
emerge il lavoro chitarristico di Mike Khalil e di una pedal steel dai
tratti psichedelici. Un breve interludio con la voce registrata del padre
(il divorzio dei genitori è un passaggio che ha segnato la storia di adolescente
di Kelsey, spingendola verso la chitarra e la musica) anticipa i ricordi
di Kentucky, 1988, seguita dall’acustica
anima roots di Lived and Let Go. La voce di Kelsey Waldon è squillante,
forse imperfetta e leggermente uniforme rispetto alla potenza di altre
colleghe, ma esprime senz’altro quella dose di verità che appartiene alle
sue canzoni, reali come la sua country music, che abbraccia l’honky tonk
più verace con Black Patch e Very Old Barton, steel e violino
a condurre le danze all’impazzata, e altresì attestazione del talento
vecchio stile dell’autrice, non per niente chiamata anche ad esibirsi
presso un’istituzione come la Grand Ole Opry.