Tornano per riprendersi quello
che gli spetta di diritto i Long Ryders, progenitori di un rock’n’roll
che guarda con orgoglio e sentimento alle radici e che oggi tutti ci siamo
abituati a chiamare Americana. Allora le sigle avevano denominazioni più
affascinanti e incomprensibili, se non agli adepti: il "Paisley Underground"
era un genere non meglio precisato, uno spirito dei tempi più che altro,
ma soprattutto una scena ricca di talenti, quelli che avevano riportato
le lancette dell’orologio della California verso l’epopea dei sixties.
I Long Ryders, già dal nome, omaggiavano la mitologia dei Byrds e cavalcavano
il lato più tradizionalista del movimento: dal cilindro tirarono fuori
chitarre, mandolini e pedal steel, ma con la sfacciataggine elettrica
del punk che animava quei giorni, dando la carica al fianco di Beat Farmers,
Blasters e altri eroi “minori” che non abbiamo mai dimenticato.
Di recente ci hanno riprovato i Dream Syndicate, con un discreto successo
peraltro, e dunque perché negare un giro anche a Sid Griffin, Stephen
McCarthy, Tom Stevens e Greg Sowders? A più di trent’anni dai loro ultimi
dispacci, avventura che si chiudeva con Two Fisted Tales nel 1987,
la band si è ritrovata, complici le celebrazioni recenti della loro storia
discografica, con la pubblicazione del cofanetto Final Wild Songs
e le ristampe ampliate di State of Our Union e del citato Two
Fisted Tales. “Colpevole” dell’incontro il vecchio amico e roadie
Larry Chatman, che nel frattempo è diventato un discografico importante
a Los Angeles nel giro hip hop. Una telefonata e tanto amarcord con i
compagni di una volta, poi l’offerta di incidere negli studi di Dr. Dre.
Griffin e soci non si sono fatti sfuggire l’occasione, che in fondo dovevano
avere già maturato in cuor loro: otto giorni in sala con un’altra vecchia
conoscenza, il produttore Ed Stasium, e l’alchimia sembra intatta.
Le facce saranno anche stagionate, qualcuna più di altre sulla copertina
di Psychedelic Country Soul, ma l’attacco delle chitarre
nella stradaiola Greenville, il violino
che sparge aromi roots in Let Me Fly e il jingle jangle di famiglia
che sostiene Molly Somebody sono la
conferma che hanno ancora benzina per viaggiare. Gli innamoramenti musicali
sono sul tavolo come santini, il country rock di Gram Parsons incontra
il beat sbarazzino della British Invasion, i Byrds aleggiano come fantasmi
e il rock mette le ruote sulla strada, per macinare chilometri. La definizione
di Psychedelic Country Soul è opportuna come non mai e il brano omonimo,
che chiude il sipario, un gioiellino di sei minuti che tra intrecci chitarristici
(McCarthy resta un manico mai troppo lodato, se ne accorsero anche i Jayhakws
al tempo) e voci californiane (alle armonie partecipano anche le ragazze
cresciute delle Bangles) rende giustizia alle qualità del songwriting.
Più maturi come richiede la loro esperienza, meno irruenti nel gesto di
una gioventù che non potrà certo tornare, i Long Ryders sanno ancora imbastire
rock’n’roll trascinante (What The Eagles See),
srotolare riff che piacerebbero tanto a Neil Young (All Aboard)
e far scintillare le sei corde come ai tempi dell’invenzione del folk
rock (The Sound), alternando dolci orizzonti country (If You
Want to see Me Cry, il manifesto “parsoniano” di California
State Line) e un omaggio necessario, sentito e rispettoso all’anima
gemella di Tom Petty, nella riedizione di un classico un po’ misconosciuto
come Walls.
Psychedelic Country Soul non ha la pretesa di essere un nuovo Native
Sons, esordio che fece il botto, né forse possiede la piena
sbocciatura di State of Our Union, ma lì in mezzo non sfigura affatto
e suona, anzi, come un riconoscimento per una generazione di musicisti
a cui abbiamo offerto fiducia incondizionata.